Con la vittoria elettorale del 28 maggio il presidente Erdogan si è garantito altri cinque anni di governo di una delle più importanti, dal punto di vista strategico, nazioni dell’area del Mediterraneo, la Turchia.
Una vittoria in parte scontata che ha dimostrato ancora una volta che nonostante la pressante crisi economica, il recente terremoto, tutti i problemi che affliggono la società turca, Erdogan è ancora saldamente al potere.
Si propone un’analisi della situazione sia dal punto di vista interno, sia internazionale.
Cosa ha concorso alla vittoria di misura sullo sfidante Kemal Kiliçdaroglu, candidato della coalizione di opposizione?
Sono numerosi gli elementi che hanno concorso alla vittoria del capo dell’AKp, che ormai guida la Turchia da circa venti anni, superando anche Ataturk in questo primato.
Innanzitutto corrisponde al vero che Erdogan anche in occasione di queste elezioni ha avuto uno strapotere di presenza e influenza sui media nazionali, spesso legati alla sua leadership, come è altrettanto vero che il candidato dell’opposizione, nonostante la buona volontà non risulta essere, secondo una buona percentuale di votanti, abbastanza carismatico, anche se è molto stimato e soprannominato il «Gandhi turco» e sia il candidato di una composita coalizione formata da sei partiti (il cosiddetto “Tavolo dei Sei”). Oltre al CHP, quale principale partito dell’Alleanza con posizioni di centro-sinistra, la coalizione è composta dal nazionalista Partito Buono (İYİ Parti), guidato da Meral Akşener, e da altri quattro partiti, tra cui il Partito Democratico (DP), il filo-islamista Partito della Felicità (SP) e due propaggini del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), i partiti Futuro (GP) e DEVA. Proprio la coalizione non ha convinto l’elettorato che l’ha percepita come troppo sgranata e debole, in una società come quella turca che apprezza la forza e la ferma volontà.
A Kemal Kiliçdaroglu è mancato il carisma e la forza di cui sono dotati altri leader che animano la scena politica turca, ma che vivono con il peccato originale di essere o in prigione, come il leader del partito filo curdo, Selahattin Demirtaş o sotto stretta sorveglianza dell’intelligence turca, come il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, quindi impresentabili alle elezioni, anche per la consapevolezza che la loro precaria posizione potesse essere utilizzata e strumentalizzata in corso di campagna elettorale dal più scafato presidente della repubblica.
Molti giornali europei hanno titolato “Erdogan vince ma non trionfa”, errore di valutazione. Erdogan ha attestato ancora una volta di essere il padrone assoluto di una nazione che ha dimostrato malgrado le proprie debolezze intrinseche, di essere capace di fungere da ago della bilancia in molte situazioni di rilievo internazionale. Se guardiamo una cartina geografica della Turchia, non ha perso molto terreno rispetto alle ultime elezioni, confermando pienamente il controllo dell’Anatolia, la stessa Anatolia che lo ha portato negli ultimi venti anni ai vertici del mondo politico turco. Città come Istanbul e Ankara, che sono andate all’opposizione, non sono abbastanza rappresentative della Turchia reale. Città in cui il pensiero erdoganiano, legato alle radici religiose, alla tradizione, alla figura della famiglia tradizionale, non ha mai attecchito pienamente, a causa della cornice occidentale di queste metropoli. E questo nonostante la forte migrazione anatolica nelle grandi città, soprattutto Istanbul.
Dal punto di vista internazionale, il clima rispetto al 2016, quando i governanti delle nazioni occidentali, in occasione del tentato colpo di stato si sono dimostrati abbastanza freddi nei confronti dello scampato pericolo corso da Erdogan, è molto cambiato. In questa occasione si sono affrettati a fare le congratulazioni e gli auguri per un nuovo periodo di prosperità per la Turchia, all’insegna del governo Erdogan. È ovvio che la presenza di Erdogan nella scena internazionale è percepita come più sicura e rassicurante rispetto ad un leader dell’opposizione semi sconosciuto a livello internazionale e che nelle dichiarazioni delle ultime settimane non ha convinto pienamente gli occidentali, soprattutto in tema di immigrazione e profughi.
La forza di Erdogan invece si è palesata nelle parole che ha pronunciato in occasione del discorso della vittoria: “Con questa vittoria si sono aperte le porte del secolo della Turchia”, sottolineando ancor di più la volontà turca di essere un paese decisivo nello scacchiere europeo, mediterraneo e internazionale.
Il 52% delle preferenze dei turchi gli sta dando ragione, i turchi gli hanno dato fiducia ancora una volta e per dimostrarlo migliaia di persone si sono riversate nelle strade, per festeggiare una vittoria che secondo il leader di Akp è di tutto il popolo turco.
Ai posteri l’ardua sentenza.
La Turchia è di Erdogan (di Emanuela Locci)
Con la vittoria elettorale del 28 maggio il presidente Erdogan si è garantito altri cinque anni di governo di una delle più importanti, dal punto di vista strategico, nazioni dell’area del Mediterraneo, la Turchia.
Una vittoria in parte scontata che ha dimostrato ancora una volta che nonostante la pressante crisi economica, il recente terremoto, tutti i problemi che affliggono la società turca, Erdogan è ancora saldamente al potere.
Si propone un’analisi della situazione sia dal punto di vista interno, sia internazionale.
Cosa ha concorso alla vittoria di misura sullo sfidante Kemal Kiliçdaroglu, candidato della coalizione di opposizione?
Sono numerosi gli elementi che hanno concorso alla vittoria del capo dell’AKp, che ormai guida la Turchia da circa venti anni, superando anche Ataturk in questo primato.
Innanzitutto corrisponde al vero che Erdogan anche in occasione di queste elezioni ha avuto uno strapotere di presenza e influenza sui media nazionali, spesso legati alla sua leadership, come è altrettanto vero che il candidato dell’opposizione, nonostante la buona volontà non risulta essere, secondo una buona percentuale di votanti, abbastanza carismatico, anche se è molto stimato e soprannominato il «Gandhi turco» e sia il candidato di una composita coalizione formata da sei partiti (il cosiddetto “Tavolo dei Sei”). Oltre al CHP, quale principale partito dell’Alleanza con posizioni di centro-sinistra, la coalizione è composta dal nazionalista Partito Buono (İYİ Parti), guidato da Meral Akşener, e da altri quattro partiti, tra cui il Partito Democratico (DP), il filo-islamista Partito della Felicità (SP) e due propaggini del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), i partiti Futuro (GP) e DEVA. Proprio la coalizione non ha convinto l’elettorato che l’ha percepita come troppo sgranata e debole, in una società come quella turca che apprezza la forza e la ferma volontà.
A Kemal Kiliçdaroglu è mancato il carisma e la forza di cui sono dotati altri leader che animano la scena politica turca, ma che vivono con il peccato originale di essere o in prigione, come il leader del partito filo curdo, Selahattin Demirtaş o sotto stretta sorveglianza dell’intelligence turca, come il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, quindi impresentabili alle elezioni, anche per la consapevolezza che la loro precaria posizione potesse essere utilizzata e strumentalizzata in corso di campagna elettorale dal più scafato presidente della repubblica.
Molti giornali europei hanno titolato “Erdogan vince ma non trionfa”, errore di valutazione. Erdogan ha attestato ancora una volta di essere il padrone assoluto di una nazione che ha dimostrato malgrado le proprie debolezze intrinseche, di essere capace di fungere da ago della bilancia in molte situazioni di rilievo internazionale. Se guardiamo una cartina geografica della Turchia, non ha perso molto terreno rispetto alle ultime elezioni, confermando pienamente il controllo dell’Anatolia, la stessa Anatolia che lo ha portato negli ultimi venti anni ai vertici del mondo politico turco. Città come Istanbul e Ankara, che sono andate all’opposizione, non sono abbastanza rappresentative della Turchia reale. Città in cui il pensiero erdoganiano, legato alle radici religiose, alla tradizione, alla figura della famiglia tradizionale, non ha mai attecchito pienamente, a causa della cornice occidentale di queste metropoli. E questo nonostante la forte migrazione anatolica nelle grandi città, soprattutto Istanbul.
Dal punto di vista internazionale, il clima rispetto al 2016, quando i governanti delle nazioni occidentali, in occasione del tentato colpo di stato si sono dimostrati abbastanza freddi nei confronti dello scampato pericolo corso da Erdogan, è molto cambiato. In questa occasione si sono affrettati a fare le congratulazioni e gli auguri per un nuovo periodo di prosperità per la Turchia, all’insegna del governo Erdogan. È ovvio che la presenza di Erdogan nella scena internazionale è percepita come più sicura e rassicurante rispetto ad un leader dell’opposizione semi sconosciuto a livello internazionale e che nelle dichiarazioni delle ultime settimane non ha convinto pienamente gli occidentali, soprattutto in tema di immigrazione e profughi.
La forza di Erdogan invece si è palesata nelle parole che ha pronunciato in occasione del discorso della vittoria: “Con questa vittoria si sono aperte le porte del secolo della Turchia”, sottolineando ancor di più la volontà turca di essere un paese decisivo nello scacchiere europeo, mediterraneo e internazionale.
Il 52% delle preferenze dei turchi gli sta dando ragione, i turchi gli hanno dato fiducia ancora una volta e per dimostrarlo migliaia di persone si sono riversate nelle strade, per festeggiare una vittoria che secondo il leader di Akp è di tutto il popolo turco.
Ai posteri l’ardua sentenza.
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Redazione Scuola