Articolo di Umberto Allegretti
apparso il 17 dicembre 2001 su Forum di Quaderni Costituzionali
Affrontare il tema della guerra e della pace oggi (dicembre 2001) significa confrontarsi, oltre che con gli ultimi eventi, con una situazione generale.
Gli atti di terrorismo negli Stati Uniti, la risposta data con la guerra in Afghanistan e con la minaccia di estenderla ad altre parti del mondo, l’atroce situazione in Palestina, le restrizioni a molte garanzie dei diritti che vengono introducendosi nei paesi democratici, sono il punto più grave raggiunto dalle relazioni mondiale. E’ facile e immediatamente convincente condannare i fatti terroristici e ritenere che debbano trovare sanzione; come pure indicare che la situazione in Palestina, sebbene concorrano a renderla tragica anche attacchi ingiustificabili agli israeliani ad opera di alcune organizzazioni palestinesi, nasce fondamentalmente dalla violazioni da parte di Israele di principi internazionali, delle antiche e sempre valide risoluzioni delle Nazioni unite e degli accordi di Oslo e perciò andrebbe sanata con la reintegrazione del diritto.
Quanto alla guerra in Afghanistan, se non altro, oltre la sua inefficienza per estirpare il terrorismo, la sua sproporzione dovrebbe costituire argomento per sostenerne l’illegittimità anche nel caso che si ritenga di configurarla (il che non è accettabile, secondo altre e più fondate analisi) come espressione di legittima difesa. La constatazione della sproporzione porta a domandarsi quali siano i veri fini con essa perseguiti e lo studio della documentazione disponibile indica – nel quadro di una generale propensione degli USA ad accrescere il loro unilaterale controllo militare del mondo – l’obiettivo di assicurare agli Stati Uniti l’insediamento stabile in quella regione dell’Asia centrale (ricca di petrolio e collocata all’intersezione delle frontiere della Russia, della Cina e del subcontinente indiano) in cui con la caduta dell’Impero sovietico si è aperto un vuoto di potere, e inoltre l’intento di stabilire una presenza militare, finora assente, nel Golfo Arabico e nell’Oceano Indiano, che si salderebbe a quella nel Pacifico e nell’Estremo Oriente. Il primo di questi obiettivi, tra loro connessi, risulta teorizzato con grande chiarezza dall’autorevole scritto di Brszezinski (La grande scacchiera, Longanesi, 1998; il secondo viene indicato tra le decisioni prese dal Dipartimento della Difesa nel suo Quadriennial Defense Review Report del 2001, la cui elaborazione è di poco anteriore all’11 settembre.
Già queste ultime considerazioni inducono a slargare il quadro aperto dalle operazioni in Afghanistan fissando lo sguardo sulla contraddizione centrale della situazione politico-giuridica delle relazioni internazionali.
Essa si è aperta da un decennio intero, paradossalmente a partire dalla fine di quel confronto tra i blocchi che veniva ritenuto la vera e unica ragione delle tensioni, e nel momento stesso in cui si accennava a pensare che le energie e le risorse liberate dalla cessazione del pericolo sarebbero state dedicate ad affrontare la condizione di malessere economico propria di gran parte del mondo. Da allora siamo infatti entrati in una condizione di guerra continua, ramificata e selvaggia e di minaccia di guerra, l’una e l’altra nuove rispetto al precedente periodo. Un numero da venti a trenta conflitti ogni anno, secondo il SIPRI , a volta a volta devastano territori e popoli di tutto il pianeta e sembrano divenuti, così si può dimostrare, il contrappunto di violenza diretta alle violenze indirette, all’oppressione e alle diseguaglianze che la globalizzazione economica e finanziaria e la omologazione/contrapposizione tra le culture mantengono nel pianeta.
Se, dunque, al diritto va chiesto un apporto a modificare questa situazione e a fermare l’oscuro presagio di un secolo che si confermi su questa strada e che temibilmente rinnovi uno stato di conflagrazione davvero mondiale,
bisognerà fare appello a un profondo senso giuridico fondamentale. Le sottigliezze dei ragionamenti particolari a cui come giuristi siamo abituati a ricorrere non arrivano da nessuna parte. Dubbi, ragioni apprezzabili e qualche volta tutte fondate, itinerari argomentativi plausibili, hanno potuto sostenere conclusioni opposte: le guerre del Golfo, di Bosnia, del Kossovo, oggi quella afghana ed altre sono state anche criticate ma più spesso giustificate sulla base di argomenti giuridicamente accreditabili, naturalmente scelti in base a intuizioni, metateorie, assunzioni di fondo diverse, che hanno poi trovato appoggio in considerazioni sfaccettate e complesse.
In presenza di queste impasse della cultura giuridica, che accompagnano quelle del pensiero politico e filosofico,
e più di tutto quelle della prassi, il richiamo, fra tutti, all’insegnamento di Dossetti ci può dare un esempio ineguagliabile di come dinanzi alle grandi questioni si debba ricorrere alle esigenze e ai principi più elevati, i soli ad essere all’altezza dei problemi affrontati. Dossetti ha dato quest’esempio alla Costituente, quando meglio d’ogni altro ha impostato su questa base i problemi generali della costituzione e del rapporto individuo-comunità minori-stato- comunità internazionale; e lo ha rinnovato nel 1994-96, quando ha ricollocato il quadro costituzionale minacciato di sovversione e bisognoso di revisione alla luce di quelle stesse esigenze e lo ha fatto anche sul tema delle relazioni internazionali (si veda la relazione tenuta a Milano il 20 gennaio 1995, pubblicata in Democrazia e Diritto, n. 4/94-1/95, e ripresa a Bari nell’aprile dello stesso anno).
Non si tratta di appellarsi al senso etico, di giustizia e di umanità da versare in norme giuridiche; si tratta di riconoscere che in questo il Novecento, ammaestrato dalle sue tragedie, ci ha consegnato un patrimonio giuridico strettamente positivo da difendere. I principi che lo ispirano si sono impiantati in maniera del tutto consonante nel diritto internazionale, principalmente nella Carta delle Nazioni unite, e nel diritto costituzionale degli stati che più lo hanno rinnovato all’uscita dalla seconda guerra mondiale, tra i quali l’Italia con l’art. 11. Consistono nel ripudio della guerra e nella rinuncia degli stati alla minaccia e all’uso della forza, con la ristretta eccezione della risposta difensiva attuabile in via provvisoria contro un attacco armato (art. 51 della Carta delle N.U.) e con la possibilità dell’impiego da parte delle Nazioni Unite delle azioni coercitive autorizzate dai capi VII e VIII della stessa Carta.
Secondo conclusioni comuni in dottrina (v.. ad es. Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, 1999) e appoggiate all’importante sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1986 nella causa Nicaragua contro Stati Uniti, il divieto del ricorso alla forza è passato nel diritto internazionale generale e vi assume carattere di norma cogente.
Per quanto riguarda il diritto italiano, il ripudio della guerra è riconosciuto (Mortati, Onida, Carlassare, Allegretti) come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.
Abbandonare questi principi sarebbe un grave arretramento, non solo sul piano filosofico ed etico, ma anche su quello della capacità del diritto di governare i fatti che coinvolgono più di tutti drammi e sofferenze umane. Eppure nulla di meno di questo è il pericolo di fronte al quale ci hanno posto gli eventi di questi ultimi anni.
Usando degli accorgimenti del ragionamento giuridico, e seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori politici e giuristi (tra questi Cassese, Zanghì) hanno accennato alla possibilità che sia quanto meno in corso la formazione di una consuetudine internazionale che ammette l’uso della forza, foss’anche unilaterale, per reagire alle violazioni dei diritti umani; considerazione estesa o estendibile alla risposta al terrorismo e all’azione per fini più vasti, fino alla difesa di tutti gli “interessi vitali” d’uno stato. E per la Costituzione italiana si è ipotizzato la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo) o comunque il superamento della sola eccezione della guerra di difesa (De Vergottini).
Si può ribattere che una o ripetute violazioni non possono abrogare o sostituire norme, soprattutto di questo rango; anzi la loro forza si vede proprio dalla capacità di condannare in loro nome fatti ad esse contrari. E va rilevato che i fini che giustificherebbero la deroga al divieto di uso della forza sono, per un lato, troppo facili da contrabbandare (come la storia antica e recente della “guerra giusta” dimostra) e da applicare selettivamente, e, dall’altro lato, non giustificano la guerra perché da questa vengono offesi gli stessi o altri valori e beni giuridici in misura anche più massiccia. La sofferenza di persone innocenti provocata in Kossovo e, ancor più, in Afghanistan ne sono la prova.
Impedire una sofferenza provocata da altri può autorizzare a cagionarne una altrettanto o più grave?
Ma ovviamente non basta riaffermare una presa di posizione culturale che rischia di essere in concreto battuta dal vacillare dei principi. Questi vanno difesi predisponendo mezzi, procedure e istituti che li rendano efficaci e dimostrino così che sono praticamente più fruttuosi di quelli contrari.
Va dunque ripreso, in alternativa agli orientamenti correnti, il cammino per mettere a punto strumenti adatti alla soluzione pacifica dei conflitti. Poichè idearne alcuni sul piano nazionale italiano può essere per un verso attualmente velleitario e comunque inadeguato alla dimensione planetaria dei problemi, non è pensabile reiterare il tentativo, fatto col progetto di legge di iniziativa popolare n. 5/XII Cam. Dep., di dettare norme che definiscano le fattispecie di attuazione dell’art. 11 Cost. e che determinino procedure democratiche per l’applicazione concreta. Bisognerà invece pensare a procedure sul piano europeo e, soprattutto, dell’ordinamento delle nazioni unite.
Nel primo caso, sembra criticabile l’orientamento dell’Unione, accelerato a seguito della guerra del Kossovo, a costituire unità armate europee destinate ad affrontare in termini militari le crisi. Pare infatti che, come in fondo il Trattato dell’U.E. prefigura, una politica di sicurezza e difesa europea debba essere l’elemento terminale della messa a punto di un’autentica “politica estera estesa a tutti i settori” e non l’avamposto anticipato ed assorbente d’una politica unitaria che è oggi lontana dall’esistere.
Comunque, tenuto conto dei principi base, la sede preferenziale per agire non è quella regionale ma quella dell’ONU. Qui l’unico tentativo organico è stato originato dalla famosa ma isolata riunione del Consiglio di sicurezza a livello dei capi di stato e di governo del 31 gennaio 1992 a seguito della quale il Segretario generale Boutros-Ghali predispose la “Agenda per la Pace”. In questo complesso di proposte la “diplomazia preventiva”, l’azione di “ristabilimento della pace” (solo in caso estremo affidata ala “imposizione della pace” e per il resto a mezzi pacifici), il “mantenimento della pace” e il “consolidamento della pace” dopo i conflitti furono delineati nei loro complessi risvolti.
Purtroppo solo gli strumenti, peraltro fondamentali, di diplomazia preventiva, che trovano ampia base nel capo VI della Carta, sono stati oggetto di approvazione con la risoluzione A.G. 47/92. Essi sono stati sperimentati in alcune occasioni: in particolare, lo spiegamento preventivo di forze prima dello scatenamento di un conflitto è stato applicato, con buoni risultati finché è durato, sui confini della Repubblica Macedone. Il consolidamento della pace è l’oggetto meno insoddisfacente della missione in Kossovo dopo la fine della guerra e si spera possa esserlo in Afghanistan a seguito della conferenza di Bonn. Ma occorre riprendere un itinerario interrotto di attenta e precisa normazione dei vari istituti, che andrebbe allargato – come si progettò di fare con la elaborazione della susseguente “Agenda per lo sviluppo”, rimasta completamente insabbiata – alla definizione di strumenti per affrontare quei presupposti necessari della pace che sono dati dalla soluzione dei più gravi problemi economici, il cui aggravamento sotto la spinta della globalizzazione costituisce il terreno di coltura dei germi del terrorismo e della guerra.
La pace e il suo statuto (di Umberto Allegretti – 17 dicembre 2001)
Articolo di Umberto Allegretti
apparso il 17 dicembre 2001 su Forum di Quaderni Costituzionali
Affrontare il tema della guerra e della pace oggi (dicembre 2001) significa confrontarsi, oltre che con gli ultimi eventi, con una situazione generale.
Gli atti di terrorismo negli Stati Uniti, la risposta data con la guerra in Afghanistan e con la minaccia di estenderla ad altre parti del mondo, l’atroce situazione in Palestina, le restrizioni a molte garanzie dei diritti che vengono introducendosi nei paesi democratici, sono il punto più grave raggiunto dalle relazioni mondiale. E’ facile e immediatamente convincente condannare i fatti terroristici e ritenere che debbano trovare sanzione; come pure indicare che la situazione in Palestina, sebbene concorrano a renderla tragica anche attacchi ingiustificabili agli israeliani ad opera di alcune organizzazioni palestinesi, nasce fondamentalmente dalla violazioni da parte di Israele di principi internazionali, delle antiche e sempre valide risoluzioni delle Nazioni unite e degli accordi di Oslo e perciò andrebbe sanata con la reintegrazione del diritto.
Quanto alla guerra in Afghanistan, se non altro, oltre la sua inefficienza per estirpare il terrorismo, la sua sproporzione dovrebbe costituire argomento per sostenerne l’illegittimità anche nel caso che si ritenga di configurarla (il che non è accettabile, secondo altre e più fondate analisi) come espressione di legittima difesa. La constatazione della sproporzione porta a domandarsi quali siano i veri fini con essa perseguiti e lo studio della documentazione disponibile indica – nel quadro di una generale propensione degli USA ad accrescere il loro unilaterale controllo militare del mondo – l’obiettivo di assicurare agli Stati Uniti l’insediamento stabile in quella regione dell’Asia centrale (ricca di petrolio e collocata all’intersezione delle frontiere della Russia, della Cina e del subcontinente indiano) in cui con la caduta dell’Impero sovietico si è aperto un vuoto di potere, e inoltre l’intento di stabilire una presenza militare, finora assente, nel Golfo Arabico e nell’Oceano Indiano, che si salderebbe a quella nel Pacifico e nell’Estremo Oriente. Il primo di questi obiettivi, tra loro connessi, risulta teorizzato con grande chiarezza dall’autorevole scritto di Brszezinski (La grande scacchiera, Longanesi, 1998; il secondo viene indicato tra le decisioni prese dal Dipartimento della Difesa nel suo Quadriennial Defense Review Report del 2001, la cui elaborazione è di poco anteriore all’11 settembre.
Già queste ultime considerazioni inducono a slargare il quadro aperto dalle operazioni in Afghanistan fissando lo sguardo sulla contraddizione centrale della situazione politico-giuridica delle relazioni internazionali.
Essa si è aperta da un decennio intero, paradossalmente a partire dalla fine di quel confronto tra i blocchi che veniva ritenuto la vera e unica ragione delle tensioni, e nel momento stesso in cui si accennava a pensare che le energie e le risorse liberate dalla cessazione del pericolo sarebbero state dedicate ad affrontare la condizione di malessere economico propria di gran parte del mondo. Da allora siamo infatti entrati in una condizione di guerra continua, ramificata e selvaggia e di minaccia di guerra, l’una e l’altra nuove rispetto al precedente periodo. Un numero da venti a trenta conflitti ogni anno, secondo il SIPRI , a volta a volta devastano territori e popoli di tutto il pianeta e sembrano divenuti, così si può dimostrare, il contrappunto di violenza diretta alle violenze indirette, all’oppressione e alle diseguaglianze che la globalizzazione economica e finanziaria e la omologazione/contrapposizione tra le culture mantengono nel pianeta.
Se, dunque, al diritto va chiesto un apporto a modificare questa situazione e a fermare l’oscuro presagio di un secolo che si confermi su questa strada e che temibilmente rinnovi uno stato di conflagrazione davvero mondiale,
bisognerà fare appello a un profondo senso giuridico fondamentale. Le sottigliezze dei ragionamenti particolari a cui come giuristi siamo abituati a ricorrere non arrivano da nessuna parte. Dubbi, ragioni apprezzabili e qualche volta tutte fondate, itinerari argomentativi plausibili, hanno potuto sostenere conclusioni opposte: le guerre del Golfo, di Bosnia, del Kossovo, oggi quella afghana ed altre sono state anche criticate ma più spesso giustificate sulla base di argomenti giuridicamente accreditabili, naturalmente scelti in base a intuizioni, metateorie, assunzioni di fondo diverse, che hanno poi trovato appoggio in considerazioni sfaccettate e complesse.
In presenza di queste impasse della cultura giuridica, che accompagnano quelle del pensiero politico e filosofico,
e più di tutto quelle della prassi, il richiamo, fra tutti, all’insegnamento di Dossetti ci può dare un esempio ineguagliabile di come dinanzi alle grandi questioni si debba ricorrere alle esigenze e ai principi più elevati, i soli ad essere all’altezza dei problemi affrontati. Dossetti ha dato quest’esempio alla Costituente, quando meglio d’ogni altro ha impostato su questa base i problemi generali della costituzione e del rapporto individuo-comunità minori-stato- comunità internazionale; e lo ha rinnovato nel 1994-96, quando ha ricollocato il quadro costituzionale minacciato di sovversione e bisognoso di revisione alla luce di quelle stesse esigenze e lo ha fatto anche sul tema delle relazioni internazionali (si veda la relazione tenuta a Milano il 20 gennaio 1995, pubblicata in Democrazia e Diritto, n. 4/94-1/95, e ripresa a Bari nell’aprile dello stesso anno).
Non si tratta di appellarsi al senso etico, di giustizia e di umanità da versare in norme giuridiche; si tratta di riconoscere che in questo il Novecento, ammaestrato dalle sue tragedie, ci ha consegnato un patrimonio giuridico strettamente positivo da difendere. I principi che lo ispirano si sono impiantati in maniera del tutto consonante nel diritto internazionale, principalmente nella Carta delle Nazioni unite, e nel diritto costituzionale degli stati che più lo hanno rinnovato all’uscita dalla seconda guerra mondiale, tra i quali l’Italia con l’art. 11. Consistono nel ripudio della guerra e nella rinuncia degli stati alla minaccia e all’uso della forza, con la ristretta eccezione della risposta difensiva attuabile in via provvisoria contro un attacco armato (art. 51 della Carta delle N.U.) e con la possibilità dell’impiego da parte delle Nazioni Unite delle azioni coercitive autorizzate dai capi VII e VIII della stessa Carta.
Secondo conclusioni comuni in dottrina (v.. ad es. Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, 1999) e appoggiate all’importante sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1986 nella causa Nicaragua contro Stati Uniti, il divieto del ricorso alla forza è passato nel diritto internazionale generale e vi assume carattere di norma cogente.
Per quanto riguarda il diritto italiano, il ripudio della guerra è riconosciuto (Mortati, Onida, Carlassare, Allegretti) come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.
Abbandonare questi principi sarebbe un grave arretramento, non solo sul piano filosofico ed etico, ma anche su quello della capacità del diritto di governare i fatti che coinvolgono più di tutti drammi e sofferenze umane. Eppure nulla di meno di questo è il pericolo di fronte al quale ci hanno posto gli eventi di questi ultimi anni.
Usando degli accorgimenti del ragionamento giuridico, e seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori politici e giuristi (tra questi Cassese, Zanghì) hanno accennato alla possibilità che sia quanto meno in corso la formazione di una consuetudine internazionale che ammette l’uso della forza, foss’anche unilaterale, per reagire alle violazioni dei diritti umani; considerazione estesa o estendibile alla risposta al terrorismo e all’azione per fini più vasti, fino alla difesa di tutti gli “interessi vitali” d’uno stato. E per la Costituzione italiana si è ipotizzato la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo) o comunque il superamento della sola eccezione della guerra di difesa (De Vergottini).
Si può ribattere che una o ripetute violazioni non possono abrogare o sostituire norme, soprattutto di questo rango; anzi la loro forza si vede proprio dalla capacità di condannare in loro nome fatti ad esse contrari. E va rilevato che i fini che giustificherebbero la deroga al divieto di uso della forza sono, per un lato, troppo facili da contrabbandare (come la storia antica e recente della “guerra giusta” dimostra) e da applicare selettivamente, e, dall’altro lato, non giustificano la guerra perché da questa vengono offesi gli stessi o altri valori e beni giuridici in misura anche più massiccia. La sofferenza di persone innocenti provocata in Kossovo e, ancor più, in Afghanistan ne sono la prova.
Impedire una sofferenza provocata da altri può autorizzare a cagionarne una altrettanto o più grave?
Ma ovviamente non basta riaffermare una presa di posizione culturale che rischia di essere in concreto battuta dal vacillare dei principi. Questi vanno difesi predisponendo mezzi, procedure e istituti che li rendano efficaci e dimostrino così che sono praticamente più fruttuosi di quelli contrari.
Va dunque ripreso, in alternativa agli orientamenti correnti, il cammino per mettere a punto strumenti adatti alla soluzione pacifica dei conflitti. Poichè idearne alcuni sul piano nazionale italiano può essere per un verso attualmente velleitario e comunque inadeguato alla dimensione planetaria dei problemi, non è pensabile reiterare il tentativo, fatto col progetto di legge di iniziativa popolare n. 5/XII Cam. Dep., di dettare norme che definiscano le fattispecie di attuazione dell’art. 11 Cost. e che determinino procedure democratiche per l’applicazione concreta. Bisognerà invece pensare a procedure sul piano europeo e, soprattutto, dell’ordinamento delle nazioni unite.
Nel primo caso, sembra criticabile l’orientamento dell’Unione, accelerato a seguito della guerra del Kossovo, a costituire unità armate europee destinate ad affrontare in termini militari le crisi. Pare infatti che, come in fondo il Trattato dell’U.E. prefigura, una politica di sicurezza e difesa europea debba essere l’elemento terminale della messa a punto di un’autentica “politica estera estesa a tutti i settori” e non l’avamposto anticipato ed assorbente d’una politica unitaria che è oggi lontana dall’esistere.
Comunque, tenuto conto dei principi base, la sede preferenziale per agire non è quella regionale ma quella dell’ONU. Qui l’unico tentativo organico è stato originato dalla famosa ma isolata riunione del Consiglio di sicurezza a livello dei capi di stato e di governo del 31 gennaio 1992 a seguito della quale il Segretario generale Boutros-Ghali predispose la “Agenda per la Pace”. In questo complesso di proposte la “diplomazia preventiva”, l’azione di “ristabilimento della pace” (solo in caso estremo affidata ala “imposizione della pace” e per il resto a mezzi pacifici), il “mantenimento della pace” e il “consolidamento della pace” dopo i conflitti furono delineati nei loro complessi risvolti.
Purtroppo solo gli strumenti, peraltro fondamentali, di diplomazia preventiva, che trovano ampia base nel capo VI della Carta, sono stati oggetto di approvazione con la risoluzione A.G. 47/92. Essi sono stati sperimentati in alcune occasioni: in particolare, lo spiegamento preventivo di forze prima dello scatenamento di un conflitto è stato applicato, con buoni risultati finché è durato, sui confini della Repubblica Macedone. Il consolidamento della pace è l’oggetto meno insoddisfacente della missione in Kossovo dopo la fine della guerra e si spera possa esserlo in Afghanistan a seguito della conferenza di Bonn. Ma occorre riprendere un itinerario interrotto di attenta e precisa normazione dei vari istituti, che andrebbe allargato – come si progettò di fare con la elaborazione della susseguente “Agenda per lo sviluppo”, rimasta completamente insabbiata – alla definizione di strumenti per affrontare quei presupposti necessari della pace che sono dati dalla soluzione dei più gravi problemi economici, il cui aggravamento sotto la spinta della globalizzazione costituisce il terreno di coltura dei germi del terrorismo e della guerra.
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Redazione Scuola