Contro il fanatismo
C’era una volta un bambino che amava molto osservare le persone. E poi c’era un gelato, che a quel bambino piaceva molto. E c’era anche una promessa: “Se fai il buono ti compriamo il gelato”. E c’era pure un locale, un Caffè, dove quel bambino veniva portato dai genitori che “dovevano discutere con i loro amici”, come gli raccontavano. E a quel bambino non piaceva molto starsene lì con tutti quei grandi sette giorni su sette. “Allora dovevo pur fare qualcosa di me stesso, per non urlare o dar fuori di matto”. Sì, certo c’era la promessa del gelato, ma non bastava. “Così me ne stavo lì seduto, come un piccolo detective, a osservare il via vai del locale – gente che entrava, gente che usciva… e come uno Sherlock Holmes, ne studiavo gli abiti, le facce, i gesti, le scarpe, rimiravo le borsette e ingannavo l’attesa inventando piccole storie su questa gente, fantasticando sulla loro provenienza o sui rapporti tra quelle due donne e quell’uomo seduti al tavolino d’angolo…”.
Passano gli anni. Forse 50 o 60. E quel bambino, nato a Gerusalemme nel 1939, si chiama oggi Amos Oz: a 15 anni decise di cambiare il cognome originario Klausner in Oz, che in ebraico significa “forza”, poi entrò nel kibbutz Hulda dove scelse di andare in rotta coi genitori, fortemente di destra, e dove visse per i successivi 30 anni. Quel bambino, poi ragazzo, poi giovane adulto, con gli anni divenne l’Amos Oz scrittore che in molti conoscono e amano anche per la capacità di entrare nell’animo dei suoi personaggi facendoceli intimamente vivere: uno degli autori più importanti della letteratura contemporanea, morto nel 2018.
Passati tutti quegli anni e arrivati ai primi del XXI secolo, Oz confessò in alcune conferenze tenute a Tubinga (recentemente ripubblicate in Italia da Feltrinelli col titolo Contro il fanatismo) che continuava a comportarsi “così” come allora: “Quando mi capitano i cosiddetti ‘tempi morti’, in aeroporto o quando mi trovo in sala d’attesa dal dentista, o in coda da qualche parte… Ancora fantastico. E credetemi, è un passatempo utile, non solo per uno scrittore: per chiunque di noi. Accadono davvero tante cose, in ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus, in qualunque sala d’aspetto di un ambulatorio, o in un Caffè… Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro campo visivo, mentre per gran parte del tempo noi restiamo indifferenti, non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone in carne e ossa. Perciò, con l’abitudine di osservare gli estranei, e con un pizzico di fortuna, finirete presumibilmente per scrivere dei racconti congetturando intorno a quello che la gente si fa a vicenda, a come ci si appartiene a vicenda”.
Ed è proprio su questa importante constatazione, su “come ci si appartiene a vicenda”, che Oz costruisce la sua visione della letteratura, certamente, ma anche il suo modo di vivere la vita e, si potrebbe dire, il suo insegnamento. “Ogni mattina – racconta nel libro citato – faccio una piccola passeggiata nel deserto, prendo una tazza di caffè, mi siedo alla scrivania e comincio a domandarmi: ‘Come mi sentierei se fossi lei? Come dev’essere stare dentro la sua pelle?’ – questo è ciò che devi fare se vuoi scrivere anche il più semplice dei dialoghi: devi spartire non soltanto la tua fedeltà, ma persino i tuoi sentimenti tra diversi personaggi”. E non solo, “parafrasando D. H. Lawrence (…) per scrivere un romanzo bisogna essere capaci di assumersi una mezza dozzina di conflitti e sentimenti contraddittori e opinioni, con lo stesso grado di convinzione, veemenza ed empatia”.
Considerazioni, queste ultime, che gli attori teatrali ben conoscono, ma che in Amos Oz diventano non solo il propulsore della sua grande letteratura, ma anche il terreno per entrare nel dramma e nella tragedia dei luoghi in cui è vissuto. “Allora, forse – afferma – sono equipaggiato un po’ meglio degli altri per capire, con il mio punto di vista ebraico-israeliano, come ci si sente a essere un palestinese sradicato, come ci si sente ad essere un arabo palestinese cui degli ‘alieni di un altro pianeta’ hanno portato via la terra natale. E come ci si sente a essere coloni israeliani in Cisgiordania? Sì, talvolta mi infilo nei panni di quella gente oltranzista, o quanto meno ci provo”.
Nel 1967, Oz assieme a pochissime altre persone, “molto prima che fosse fondato il movimento Pace Adesso, qualche settimana dopo la spettacolare vittoria militare d’Israele nella guerra dei Sei Giorni, iniziò “a propugnare una soluzione binazionale, una Palestina accanto a Israele, cosa che in quei giorni di euforia nazionale in Israele veniva guardata non solo come un tradimento, ma anche come una manifestazione di totale idiozia”. Invece, per l’autore de “Lo stesso mare” e di tanti altri favolosi romanzi, “solo colui che ama può diventare un traditore. Il tradimento non è il contrario dell’amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io”.
“In altre parole – spiega Oz – agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici”. E così, “traditore lo sei comunque. Qualunque cosa tu faccia, tradisci o la tua arte o il tuo senso di dovere civile”. Ma per Oz la soluzione esiste ed è il compromesso. Per molti il compromesso “puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Per lo scrittore il fanatismo “dilaga ovunque. Non mi riferisco alle ovvie manifestazioni di fondamentalismo e oltranzismo… No, perché il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors’anche dentro di noi”. Poi Oz fa una serie di esempi tra cui quello, portato al paradosso, di certi pacifisti: “Conosco quei pacifisti, alcuni miei colleghi del movimento per la pace in Israele, capaci di spararmi in testa solo perché ho auspicato una strategia lievemente diversa per il processo di pace con i palestinesi”. Sia chiaro, spiega, “non voglio certo intendere che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Certo che no. Però penso che il seme del fanatismo si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli”. E nemica inflessibile del compromesso.
Nei romanzi di Oz nessuno è un’isola, chiuso e impermiabile al mondo, ma tutti sono una penisola, legati alla terra del proprio modo di essere e all’oceano, gli spazi del cambiamento. “Se nei miei romanzi c’è messaggio metapolitico, è sempre, in un modo o nell’altro, il messaggio di un compromesso, un compromesso doloroso, e della necessità di scegliere tra vita e morte, fra l’imperfezione della vita e la perfezione di una morte gloriosa”, che tutto sommerge, si potrebbe aggiungere, come un macigno di “rettitudine inflessibile”. E non è certo un caso, sottolinea lo scrittore, che i fanatici non abbiamo senso dell’umorismo. “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo”. Questo anche perché “l’umorismo implica la capacità di ridere di sé stessi”. Umorismo come antidoto al fanatismo e al fondamentalismo, che nasce anche da una profonda conoscenza dell’ebraismo (tra le altre cose Oz ha insegnato letteratura ebraica nell’università Ben Gurion, nel Negev). “Nella vita quotidiana degli anni quaranta – ricorda – ognuno pensava di appartenere a Gerusalemme nel vero senso del termine, mentre gli altri erano considerati alla stregua di una presenza ammissibile, di sfondo”. E le “tensioni interconfessionali erano tali che ci si poteva o diventare matti oppure sviluppare un ottimo senso dell’umorismo. O ancora un senso di relatività. La convinzione insomma che ognuno ha la sua storia, ma non ce n’è una più valida o avvincente dell’altra”.
Pure qui ritorna lo spazio di un Caffè come luogo di dialogo e di produzione di storie, come quella che vede discutere animatamente alcune persone, tra cui se ne nota una più vecchia degli altri che se ne sta in silenzio, ma che si scopre essere Dio. L’avventore più vicino “ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: ‘Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i mussulmani? Chi possiede la vera fede?’. Allora Dio, in questa storia risponde: ‘A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa’”. Insomma, prosegue Oz, “c’è una vena di anarchia non soltanto in Israele, ma credo piuttosto nel retaggio culturale dell’ebraismo”.
Una percezione di relatività, che nasce anche dal senso dell’umorismo, è indispensabile allo scrittore per capire le ragioni degli altri. Quand’era piccolo, Oz ricorda che le prime parole in inglese da lui pronunciate “sono state British, go home!, che noi marmocchi gerosolimitani (nativi di Gerusalemme – ndr) gridavamo gettando sassi contro le pattuglie inglesi a Gerusalemme nella nostra ‘intifada’ del 1945, 1946 e 1947”. Poi la storia è diventata ancora più complessa: “Come non far maturare un senso di relatività, un senso della prospettiva e anche una triste ironia sul fatto che gli occupati possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri aggressori? Con quanta facilità i ruoli si ribaltano”. E la storia si incancrenisce.
“Fra noi e i palestinesi – scrive nell’ultimo suo piccolo e illuminante saggio Resta ancora tanto da dire – c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi c’è una ferita infetta, piena di pus. Un ascesso, ormai”. Ma “non si cura una ferita con un bastone… Non è ammissibile continuare a infierire in questo modo su una ferita aperta, sperando che così si rimargini, che smetta di sanguinare”. Certo, “la sopraffazione non di rado va fermata con la forza… Ma nessuna ferita si cura con un bastone”. Da pacifista coerente, Oz spiega che “una ferita va curata” e che “prima di tutto bisogna trovare la lingua della cura. Che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del ‘dare una lezione’”. Per lo scrittore è una lingua più semplice: “Soffri. Lo so. Soffro anch’io. Su, ricominciamo insieme”.
Nella guerra arabo-israeliana del 1948, il punto – sostiene – non è di chi sia la responsabilità del conflitto. “Il punto è la tragedia. Che siano da accusare le dirigenze arabe, o i sionisti, o entrambi, resta il fatto che nel 1948 centinaia di migliaia di palestinesi persero le loro case. So bene che nello stesso anno, durante la stessa guerra, quasi un milione di ebrei orientali dei paesi arabi persero anche loro le case e molti di loro vennero cacciati via e arrivarono in Israele”. E prima e in parte assieme a loro, molti ebrei abbracciarono l’idea sionista ma con un ventaglio vastissimo di posizioni e interpretazioni, tanto da far dire ad Oz, seppure “cum grano salis, (…) che Israele non è un paese e nemmeno una nazione. È una feroce, schiamazzante collezione di argomentazioni, un perpetuo seminario di strada”.
“Ma allora che cos’è il sionismo? – si domanda retoricamente lo scrittore in Resta ancora tanto da dire, consapevole che è questa la domanda che molti gli pongono – Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove”. Come dire che il sionismo nasce tra gli ebrei perseguitati da secoli, poi sterminati dal nazismo e infine rifiutati da tutti gli altri paesi, come gli stessi genitori di Oz.
In questo contesto il conflitto Israelo-palestinese era e resta una tragedia. Dopo la guerra del 1948 “un buon numero” di ebrei orientali, “finì in quelle stesse case che erano appartenute agli arabi palestinesi”. In pratica, “dopo tre quattro, cinque anni trascorsi nei campi di transito, gli ebrei sopravvissuti che venivano dall’Iraq, dal Nord Africa e dall’Egitto, Siria e Yemen ebbero finalmente una casa e un lavoro, mentre i profughi palestinesi no. La questione rimane aperta, e con dolore”.
Ed è per questo che questa lunga storia non ha “buoni da una parte e cattivi dall’altra. Non è un film western, e nemmeno un western capovolto”. C’è invece, “una tragedia: il contrasto tra un diritto e l’altro”. Un diritto e l’altro, entrambi calpestati, infatti “una delle cose che rendono il conflitto israeliano-palestinese particolarmente grave, è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto tra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. E qui Oz on ha dubbi. “L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d’imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti”.
La storia poi diventa particolarmente crudele, racconta Oz, perché queste due vittime di uno stesso oppressore non solidarizzano tra loro, ma si odiano. Da un lato “l’ebreo, in particolare l’ebreo israeliano, è dipinto come un’estensione dell’Europa: bianca, sofisticata, tirannica, colonizzatrice, crudele, senza cuore”. E non come “un gruppo sparuto di sopravvissuti e profughi mezzo isterici, braccati da terribili incubi, traumatizzati non solo dall’Europa, ma anche dal modo in cui siamo stati trattati nei paesi arabi e islamici”. Dall’altro lato, “parimenti noi, ebrei israeliani, non consideriamo gli arabi, nello specifico i palestinesi, per quello che sono, e cioè vittime di secoli di oppressione, sfruttamento, colonialismo e umiliazione. E invece li vediamo come dei cosacchi da pogrom, dei nazisti con i baffi, abbronzati e con indosso la kefijah”.
A fronte di tutto questo “vige su entrambi i fronti una profonda ignoranza: non di carattere politico, su scopi e obiettivi, ma relativa al vissuto di traumi che le due vittime hanno subito”. Da un lato il movimento nazionale palestinese, per molti anni, “ha mancato di riconoscere l’autenticità del legame ebraico con la terra di Israele. Perché non ha voluto riconoscere che il moderno Israele non è affatto un prodotto dell’impresa coloniale”. Dall’altro, parimenti “aggiungo subito che sono altrettanto critico verso le generazioni di sionisti israeliani che hanno mancato di riconoscere l’esistenza di un popolo palestinese, un popolo vero con veri, legittimi diritti. Così, entrambe le leadership, tanto passate quanto presenti, sono colpevoli di non aver compreso la tragedia, o se non altro di non averla spiegata ai propri popoli”.
Che fare, infine? Oz chiude Contro il fanatismo con una esortazione quanto mai attuale: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.
Contro il fanatismo (di Roberto Paracchini)
Contro il fanatismo
C’era una volta un bambino che amava molto osservare le persone. E poi c’era un gelato, che a quel bambino piaceva molto. E c’era anche una promessa: “Se fai il buono ti compriamo il gelato”. E c’era pure un locale, un Caffè, dove quel bambino veniva portato dai genitori che “dovevano discutere con i loro amici”, come gli raccontavano. E a quel bambino non piaceva molto starsene lì con tutti quei grandi sette giorni su sette. “Allora dovevo pur fare qualcosa di me stesso, per non urlare o dar fuori di matto”. Sì, certo c’era la promessa del gelato, ma non bastava. “Così me ne stavo lì seduto, come un piccolo detective, a osservare il via vai del locale – gente che entrava, gente che usciva… e come uno Sherlock Holmes, ne studiavo gli abiti, le facce, i gesti, le scarpe, rimiravo le borsette e ingannavo l’attesa inventando piccole storie su questa gente, fantasticando sulla loro provenienza o sui rapporti tra quelle due donne e quell’uomo seduti al tavolino d’angolo…”.
Passano gli anni. Forse 50 o 60. E quel bambino, nato a Gerusalemme nel 1939, si chiama oggi Amos Oz: a 15 anni decise di cambiare il cognome originario Klausner in Oz, che in ebraico significa “forza”, poi entrò nel kibbutz Hulda dove scelse di andare in rotta coi genitori, fortemente di destra, e dove visse per i successivi 30 anni. Quel bambino, poi ragazzo, poi giovane adulto, con gli anni divenne l’Amos Oz scrittore che in molti conoscono e amano anche per la capacità di entrare nell’animo dei suoi personaggi facendoceli intimamente vivere: uno degli autori più importanti della letteratura contemporanea, morto nel 2018.
Passati tutti quegli anni e arrivati ai primi del XXI secolo, Oz confessò in alcune conferenze tenute a Tubinga (recentemente ripubblicate in Italia da Feltrinelli col titolo Contro il fanatismo) che continuava a comportarsi “così” come allora: “Quando mi capitano i cosiddetti ‘tempi morti’, in aeroporto o quando mi trovo in sala d’attesa dal dentista, o in coda da qualche parte… Ancora fantastico. E credetemi, è un passatempo utile, non solo per uno scrittore: per chiunque di noi. Accadono davvero tante cose, in ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus, in qualunque sala d’aspetto di un ambulatorio, o in un Caffè… Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro campo visivo, mentre per gran parte del tempo noi restiamo indifferenti, non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone in carne e ossa. Perciò, con l’abitudine di osservare gli estranei, e con un pizzico di fortuna, finirete presumibilmente per scrivere dei racconti congetturando intorno a quello che la gente si fa a vicenda, a come ci si appartiene a vicenda”.
Ed è proprio su questa importante constatazione, su “come ci si appartiene a vicenda”, che Oz costruisce la sua visione della letteratura, certamente, ma anche il suo modo di vivere la vita e, si potrebbe dire, il suo insegnamento. “Ogni mattina – racconta nel libro citato – faccio una piccola passeggiata nel deserto, prendo una tazza di caffè, mi siedo alla scrivania e comincio a domandarmi: ‘Come mi sentierei se fossi lei? Come dev’essere stare dentro la sua pelle?’ – questo è ciò che devi fare se vuoi scrivere anche il più semplice dei dialoghi: devi spartire non soltanto la tua fedeltà, ma persino i tuoi sentimenti tra diversi personaggi”. E non solo, “parafrasando D. H. Lawrence (…) per scrivere un romanzo bisogna essere capaci di assumersi una mezza dozzina di conflitti e sentimenti contraddittori e opinioni, con lo stesso grado di convinzione, veemenza ed empatia”.
Considerazioni, queste ultime, che gli attori teatrali ben conoscono, ma che in Amos Oz diventano non solo il propulsore della sua grande letteratura, ma anche il terreno per entrare nel dramma e nella tragedia dei luoghi in cui è vissuto. “Allora, forse – afferma – sono equipaggiato un po’ meglio degli altri per capire, con il mio punto di vista ebraico-israeliano, come ci si sente a essere un palestinese sradicato, come ci si sente ad essere un arabo palestinese cui degli ‘alieni di un altro pianeta’ hanno portato via la terra natale. E come ci si sente a essere coloni israeliani in Cisgiordania? Sì, talvolta mi infilo nei panni di quella gente oltranzista, o quanto meno ci provo”.
Nel 1967, Oz assieme a pochissime altre persone, “molto prima che fosse fondato il movimento Pace Adesso, qualche settimana dopo la spettacolare vittoria militare d’Israele nella guerra dei Sei Giorni, iniziò “a propugnare una soluzione binazionale, una Palestina accanto a Israele, cosa che in quei giorni di euforia nazionale in Israele veniva guardata non solo come un tradimento, ma anche come una manifestazione di totale idiozia”. Invece, per l’autore de “Lo stesso mare” e di tanti altri favolosi romanzi, “solo colui che ama può diventare un traditore. Il tradimento non è il contrario dell’amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io”.
“In altre parole – spiega Oz – agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici”. E così, “traditore lo sei comunque. Qualunque cosa tu faccia, tradisci o la tua arte o il tuo senso di dovere civile”. Ma per Oz la soluzione esiste ed è il compromesso. Per molti il compromesso “puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Per lo scrittore il fanatismo “dilaga ovunque. Non mi riferisco alle ovvie manifestazioni di fondamentalismo e oltranzismo… No, perché il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors’anche dentro di noi”. Poi Oz fa una serie di esempi tra cui quello, portato al paradosso, di certi pacifisti: “Conosco quei pacifisti, alcuni miei colleghi del movimento per la pace in Israele, capaci di spararmi in testa solo perché ho auspicato una strategia lievemente diversa per il processo di pace con i palestinesi”. Sia chiaro, spiega, “non voglio certo intendere che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Certo che no. Però penso che il seme del fanatismo si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli”. E nemica inflessibile del compromesso.
Nei romanzi di Oz nessuno è un’isola, chiuso e impermiabile al mondo, ma tutti sono una penisola, legati alla terra del proprio modo di essere e all’oceano, gli spazi del cambiamento. “Se nei miei romanzi c’è messaggio metapolitico, è sempre, in un modo o nell’altro, il messaggio di un compromesso, un compromesso doloroso, e della necessità di scegliere tra vita e morte, fra l’imperfezione della vita e la perfezione di una morte gloriosa”, che tutto sommerge, si potrebbe aggiungere, come un macigno di “rettitudine inflessibile”. E non è certo un caso, sottolinea lo scrittore, che i fanatici non abbiamo senso dell’umorismo. “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo”. Questo anche perché “l’umorismo implica la capacità di ridere di sé stessi”. Umorismo come antidoto al fanatismo e al fondamentalismo, che nasce anche da una profonda conoscenza dell’ebraismo (tra le altre cose Oz ha insegnato letteratura ebraica nell’università Ben Gurion, nel Negev). “Nella vita quotidiana degli anni quaranta – ricorda – ognuno pensava di appartenere a Gerusalemme nel vero senso del termine, mentre gli altri erano considerati alla stregua di una presenza ammissibile, di sfondo”. E le “tensioni interconfessionali erano tali che ci si poteva o diventare matti oppure sviluppare un ottimo senso dell’umorismo. O ancora un senso di relatività. La convinzione insomma che ognuno ha la sua storia, ma non ce n’è una più valida o avvincente dell’altra”.
Pure qui ritorna lo spazio di un Caffè come luogo di dialogo e di produzione di storie, come quella che vede discutere animatamente alcune persone, tra cui se ne nota una più vecchia degli altri che se ne sta in silenzio, ma che si scopre essere Dio. L’avventore più vicino “ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: ‘Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i mussulmani? Chi possiede la vera fede?’. Allora Dio, in questa storia risponde: ‘A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa’”. Insomma, prosegue Oz, “c’è una vena di anarchia non soltanto in Israele, ma credo piuttosto nel retaggio culturale dell’ebraismo”.
Una percezione di relatività, che nasce anche dal senso dell’umorismo, è indispensabile allo scrittore per capire le ragioni degli altri. Quand’era piccolo, Oz ricorda che le prime parole in inglese da lui pronunciate “sono state British, go home!, che noi marmocchi gerosolimitani (nativi di Gerusalemme – ndr) gridavamo gettando sassi contro le pattuglie inglesi a Gerusalemme nella nostra ‘intifada’ del 1945, 1946 e 1947”. Poi la storia è diventata ancora più complessa: “Come non far maturare un senso di relatività, un senso della prospettiva e anche una triste ironia sul fatto che gli occupati possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri aggressori? Con quanta facilità i ruoli si ribaltano”. E la storia si incancrenisce.
“Fra noi e i palestinesi – scrive nell’ultimo suo piccolo e illuminante saggio Resta ancora tanto da dire – c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi c’è una ferita infetta, piena di pus. Un ascesso, ormai”. Ma “non si cura una ferita con un bastone… Non è ammissibile continuare a infierire in questo modo su una ferita aperta, sperando che così si rimargini, che smetta di sanguinare”. Certo, “la sopraffazione non di rado va fermata con la forza… Ma nessuna ferita si cura con un bastone”. Da pacifista coerente, Oz spiega che “una ferita va curata” e che “prima di tutto bisogna trovare la lingua della cura. Che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del ‘dare una lezione’”. Per lo scrittore è una lingua più semplice: “Soffri. Lo so. Soffro anch’io. Su, ricominciamo insieme”.
Nella guerra arabo-israeliana del 1948, il punto – sostiene – non è di chi sia la responsabilità del conflitto. “Il punto è la tragedia. Che siano da accusare le dirigenze arabe, o i sionisti, o entrambi, resta il fatto che nel 1948 centinaia di migliaia di palestinesi persero le loro case. So bene che nello stesso anno, durante la stessa guerra, quasi un milione di ebrei orientali dei paesi arabi persero anche loro le case e molti di loro vennero cacciati via e arrivarono in Israele”. E prima e in parte assieme a loro, molti ebrei abbracciarono l’idea sionista ma con un ventaglio vastissimo di posizioni e interpretazioni, tanto da far dire ad Oz, seppure “cum grano salis, (…) che Israele non è un paese e nemmeno una nazione. È una feroce, schiamazzante collezione di argomentazioni, un perpetuo seminario di strada”.
“Ma allora che cos’è il sionismo? – si domanda retoricamente lo scrittore in Resta ancora tanto da dire, consapevole che è questa la domanda che molti gli pongono – Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove”. Come dire che il sionismo nasce tra gli ebrei perseguitati da secoli, poi sterminati dal nazismo e infine rifiutati da tutti gli altri paesi, come gli stessi genitori di Oz.
In questo contesto il conflitto Israelo-palestinese era e resta una tragedia. Dopo la guerra del 1948 “un buon numero” di ebrei orientali, “finì in quelle stesse case che erano appartenute agli arabi palestinesi”. In pratica, “dopo tre quattro, cinque anni trascorsi nei campi di transito, gli ebrei sopravvissuti che venivano dall’Iraq, dal Nord Africa e dall’Egitto, Siria e Yemen ebbero finalmente una casa e un lavoro, mentre i profughi palestinesi no. La questione rimane aperta, e con dolore”.
Ed è per questo che questa lunga storia non ha “buoni da una parte e cattivi dall’altra. Non è un film western, e nemmeno un western capovolto”. C’è invece, “una tragedia: il contrasto tra un diritto e l’altro”. Un diritto e l’altro, entrambi calpestati, infatti “una delle cose che rendono il conflitto israeliano-palestinese particolarmente grave, è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto tra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. E qui Oz on ha dubbi. “L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d’imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti”.
La storia poi diventa particolarmente crudele, racconta Oz, perché queste due vittime di uno stesso oppressore non solidarizzano tra loro, ma si odiano. Da un lato “l’ebreo, in particolare l’ebreo israeliano, è dipinto come un’estensione dell’Europa: bianca, sofisticata, tirannica, colonizzatrice, crudele, senza cuore”. E non come “un gruppo sparuto di sopravvissuti e profughi mezzo isterici, braccati da terribili incubi, traumatizzati non solo dall’Europa, ma anche dal modo in cui siamo stati trattati nei paesi arabi e islamici”. Dall’altro lato, “parimenti noi, ebrei israeliani, non consideriamo gli arabi, nello specifico i palestinesi, per quello che sono, e cioè vittime di secoli di oppressione, sfruttamento, colonialismo e umiliazione. E invece li vediamo come dei cosacchi da pogrom, dei nazisti con i baffi, abbronzati e con indosso la kefijah”.
A fronte di tutto questo “vige su entrambi i fronti una profonda ignoranza: non di carattere politico, su scopi e obiettivi, ma relativa al vissuto di traumi che le due vittime hanno subito”. Da un lato il movimento nazionale palestinese, per molti anni, “ha mancato di riconoscere l’autenticità del legame ebraico con la terra di Israele. Perché non ha voluto riconoscere che il moderno Israele non è affatto un prodotto dell’impresa coloniale”. Dall’altro, parimenti “aggiungo subito che sono altrettanto critico verso le generazioni di sionisti israeliani che hanno mancato di riconoscere l’esistenza di un popolo palestinese, un popolo vero con veri, legittimi diritti. Così, entrambe le leadership, tanto passate quanto presenti, sono colpevoli di non aver compreso la tragedia, o se non altro di non averla spiegata ai propri popoli”.
Che fare, infine? Oz chiude Contro il fanatismo con una esortazione quanto mai attuale: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.
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Redazione Scuola