Dopo la lettura del libro di Nadia Urbinati “L’ipocrisia virtuosa” Note a margine, in forma di dialogo (di Roberto Paracchini)

– Sei una stupida! stupida stupida!
– Ma…
– Ma, ma…, ma è mai possibile che non abbia ancora finito di leggere il libro!
– Ma sai che sono lenta…
– No, no, non usare alibi, è che tu non ti concentri quando fai le cose.
– ?
– Sì, sì, non ti concentri, se ti concentrassi di più mentre leggi, saresti senza dubbio più veloce, invece…, invece ti distrai in continuazione, in contemplazione, anche; e questo è il risultato: non leggi mai nei tempi stabiliti.
– Stabiliti?
– Sì, stabiliti, sai anche nella lettura ci sono dei tempi limite, superati i quali c’è qualcosa che non va. Quindi delle due l’una: o sei proprio stupida, o non ti impegni e ti lasci distrarre da qualunque cosa…
– No, non è vero.
– Ma almeno abbi il buon gusto di tacere
– Tacere?
Lui, lo sguardo torvo, quasi sbuffa.
Lei tace mordendosi il labbro per non piangere, aggrappandosi a un’immagine riapparsa di colpo dalle cianfrusaglie dei ricordi:
Un banco di legno nero leggermente inclinato con sopra un libro ostinatamente manipolato da due piccole mani e una flebile voce: sdruccio…, sdruccio-le… “Beh, continua, leggi, su, non ti distrarre!”, parole affiancate da un forte calore sulla schiena. “Dai, su, leggi!”. “Sdruccio-le…”. E un altro bruciore, come un morso, le aggredisce la schiena. Carla vede che la parola va a capo ma non riesce a leggerla completamente “sdruccio (…) le (…) vole”. E si sente in colpa perché non ha fatto felice la maestra. Solo il bruciore sulla schiena dovuto alle bacchettate della signora maestra, le sembra attenuare la sua colpa.
Ora Carla cessa di mordersi il labbro. Sì, leggevo male, avevo grosse difficoltà a mettere insieme le singole parole e in parte anche oggi si racconta tra sé e sé. Ma adesso quel “stupida!” reiterato riassesta i ricordi e lascia un sapore amaro in un turbinio di pensieri confusi e tanta voglia di reagire.
– Smettila, non vedi che mi fai male!
– Ma che dici, ti sto solo aiutando dicendoti la verità, che tu non ti impegni.
– Smettila, che cosa ne sai tu del mio impegno?
– Beh, se non finisci un libro…
– …, sarei distratta e priva di volontà di impegnarmi? Ma bravo, quindi tu sei il signor Sotutto. Allora dimmi, signor Sotutto, cronometro alla mano, dimmi quanto tempo ci si deve mettere per leggere un libro? Qual è il limite massimo di tempo oltre il quale si è trasandati, faciloni, incompetenti e stupidi? Su, dimmelo!
– Ma dai, adesso non te la prendere.
– E tu non offendere.
– Ti ho detto solo quel che pensavo…
– … dandomi della cretina solo perché non ho rispettato dei tempi che tu, signor Sotutto, hai stabilito.
– E che cosa avresti voluto, che non ti avessi detto quel che penso, perché, sai, ti informo che io sono una persona autentica!
– Autentica?
– Certamente.
– E di che cosa saresti autentico? Certo, sei pieno di autentici pregiudizi.
– Macchè pregiudizi! Io dico quel che penso!
– Ma bravo, e non ti curi di quello che possono provare gli altri, quando gli dici in faccia che sono stupidi?
– Ma non è questo il problema.
– Noo? Già, tu dici quello che pensi, ma senza tenere presente che quello che dici può offendere e non rispettare la persona con cui parli, che ti sta di fronte.
– Ripeto: dico quello che penso e che in questo caso condividono anche la maggior parte delle persone: che chi sa leggere perché ha studiato ma è lento, vuol dire che non si impegna, oppure che è stupido.
– Bravo, ma bravo… Dimenticavo che sei il signor Sotutto. Non hai mai sentito parlare di dislessia?
– E che cos’è?
– E’ un disturbo neurologico che non ha niente a che vedere con quella che tu chiami “stupidità”. La dislessia riguarda il modo in cui percepiamo-vediamo le forme e, quindi, anche la scrittura che ha anch’essa le sue forme.
– Beh, mi stai dando ragione, la questione delle forme dimostra che la persona dislessica ha difficoltà a capire quel che legge.
– No, signor Sotutto, come quasi tutti i presuntuosi, dimostri di essere anche molto ignorante. Il dislessico non ha difficoltà a capire quel che legge, ha semmai difficoltà a riconoscere le forme della scrittura, mentre una volta superata questa difficoltà, capisce benissimo quel che legge.
– Beh, questo vuol dire che c’è un problema.
– Ma non è una questione cognitiva, legata alla comprensione di quel che si sta facendo o, se preferisci, alla comprensione della realtà.
– Questo lo dici tu.
– No, lo afferma la storia di tantissime persone: anche Albert Einstein era dislessico, e pure Leonardo Da Vinci, Walt Disney, Agatha Christhie e molti molti altri, tutti dislessici eppure…
– Va beh, va beh. E tutto questo discorso me lo stai facendo perché ti ho detto che leggi troppo lentamente?
– No, ti faccio questo discorso perché il tuo modo di parlare offende e umilia la persona a cui ti rivolgi, come hai fatto con me. Il tuo modo di parlare non tiene conto di almeno due importanti questioni: il contesto in cui si dicono le cose, che comprende anche la sensibilità della persona a cui ti rivolgi, e la possibilità di avere torto nel merito.
– E questo che vuol dire?
– Che un “stupida!” detto in un contesto di gioco ha un significato; tutt’altro invece se affermato in una discussione seria. Poi, mio caro Sotutto, visto che il mondo è complesso, sarebbe meglio se limitassimo le affermazioni perentorie e assertive a favore di un po’ di prudenza.
– Insomma, mi stai dicendo che non devo essere quello che sono, che non devo essere autentico.
– No, ti sto dicendo un’altra cosa, che rispettare colei o colui che ti sta di fronte, o con cui parli, significa rispettare i suoi ma anche i tuoi diritti: la nostra “comune libertà di scegliere di vivere come desideriamo, nel rispetto reciproco”, come scrive Nadia Urbinati (docente di teoria politica alla Columbia University di New York) nel bel libro L’ipocrisia virtuosa.
– Beh, quindi confermi anche tu che è mio diritto essere sincero dicendo quel che penso…
– Ma mi ascolti? Ovvio che è un tuo diritto, ma nel rispetto reciproco.
– E ci risiamo.
– Vedi tu, prima mi hai dato della cretina.
– Tu, però, sei permalosa.
– Ma come ti saresti sentito se poco fa al posto di spiegarti in modo pacato che cos’è la dislessia, ti avessi apostrofato come “grande stronzo” e aggiunto: “Stai zitto e studia prima di aprire la bocca solo per farle prendere aria”?
– Beh, mi sarei sentito certamente offeso e non libero di manifestare il mio pensiero.
– Appunto, e questo ti dice che “dal rispetto reciproco scaturisce la tranquillità di cui abbiamo bisogno per sentirci liberi”, come sottolinea Urbinati.
– In questo modo, però, si sentono liberi gli altri e non io, né tanti altri che come me non possono più dire quello che pensano.
– Ma se al tuo precedente epiteto di “cretina!” rivolto a me, io ti avessi risposto come avresti meritato con “viscido maschilista, se hai il coraggio guardati allo specchio, resteresti stupito della tua stessa stupidità per quanto grande è la tua ignoranza e intolleranza”, tu che avresti risposto? Probabilmente mi avresti lanciato con un altro insulto.
– Ci puoi contare.
– Vedi bene anche tu che in questo modo la nostra reciproca comunicazione si sarebbe di lì a poco interrotta.
– Ovviamente… Però, al tempo, in questo modo mi stai dicendo che devo essere ipocrita, non dire quello che penso: dire menzogne, seppure per non offendere.
– Per niente, non ti sto certo dicendo che devi dire menzogne in modo sistematico…
– No, no, ora ho capito: vuoi portarmi sul terreno del politicamente corretto.
– Non essere precipitoso, altrimenti precipiti di nuovo.
– Cioè?
– Sì, rischi di precipitare inciampando sulla tua presunzione, su ciò che presumi che io dica, mentre non l’ho detto.
Lui la guarda perplesso come chi si aspetta una trappola.
– Beh, allora dillo.
– Prima abbiamo parlato dell’importanza della tranquillità per sentirci liberi.
– Esatto.
– E abbiamo anche accennato al fatto che se io avessi risposto per le rime al tuo epiteto “cretina!”, avremmo probabilmente continuato in un crescendo di ingiurie, di certo non in una discussione serena; e in poco tempo saremmo giunti a un punto morto in cui la comunicazione tra noi si sarebbe interrotta.
– Quindi?
– Quindi ci saremmo impediti un importante diritto, quello di poterci parlare e di poterci scambiare le nostre opinioni.
– E ora dove vuoi andare a parare?
– Se me lo permetti vorrei fare un passo in più e dire, con l’aiuto delle parole di Urbinati, “che i diritti hanno due facce: una è rivolta verso i destinatari della nostra possibile intolleranza e l’altra è rivolta verso di noi”.
– Che cosa vorresti dire?
– Posto che noi due abbiamo il diritto di poterci reciprocamente parlare, se io avessi reagito in modo immediato e piccato, diciamo pure non tollerando il (intollerante al) tuo modo irriguardoso di parlarmi, come in un primo momento ho pensato di fare, ora non saremmo qui a dialogare ma a litigare e insultarci.
– Però ancora non capisco che cosa voglia dire.
– Che, come già esposto, ci saremmo privati di un diritto, quello di poterci tranquillamente parlare, con la possibilità di arricchirci grazie a una dialettica pacata sulle nostre opinioni.
– In effetti…
– Invece dialogando, nel senso etimologico di farci attraversare dalle parole, siamo arrivati a una consapevolezza importante sui diritti o, meglio, sulle loro due facce: una rivolta verso gli altri e l’altra verso noi stessi; e questione ugualmente rilevante: abbiamo capito che i diritti sono tali, funzionano potremmo dire, solo se tutti, noi e gli altri, possono usufruirne. Per dirla con Urbinati i diritti “designano relazioni di reciproco dare e ricevere, di comunicazione e scambio”.
– Allora diciamola tutta. Siamo arrivati a questo punto, a un dialogo di scambio, solo perché tu ti sei morsa la lingua per non rispondermi per le rime, come forse avrei meritato, quando ti ho dato della “cretina”.
– Sì, ma quando ho deciso di non mandarti a quel paese, l’ho fatto perché ho pensato che tu fossi come ingabbiato in una serie di pregiudizi sbagliati sulla lettura, oltre che da un sottofondo maschilista, forse inconscio ma non meno feroce, perché non sono affatto sicura che avresti dato del “cretino!” a un uomo…
– Beh…, sinceramente non lo so, ma forse hai ragione tu. Mi scuso…
– Direi che quando ho scelto di non mandarti a quel paese, in un tempo rapidissimo mi sono venute in mente tante cose. Ha prevalso l’idea che avrei potuto mettere da parte quello che avevo pensato di te in quel momento per tentare un’altra strada, certo non remissiva ma pacata e rigorosa, cercando e sperando di spostare il nostro dialogo su una postura non patologica, di offesa e sofferenza, ma “di dare e ricevere” paritario.
– D’accordo, nelle tue argomentazioni mi sembra ci sia anche l’auspicio all’autocontrollo.
– Sì, in quanto noi tutti siamo diversi e nello stesso tempo viviamo assieme agli altri e di loro abbiamo bisogno proprio per vivere. Da qui la necessità di accettare e comprendere che esiste un mondo di pensieri e comportamenti diversi dal nostro.
– E se questo diverso dal tuo modo di vivere ti dà, come dire, fastidio, dobbiamo esercitare l’autocontrollo e controllare le nostre reazioni di pelle?
– Anche, ma l’autocontrollo non è tanto una questione “di pelle”, come dici tu ma, come fa capire bene Urbinati, un intreccio razionalmente consapevole tra il nostro modo di essere e di manifestare i nostri bisogni, e il modo di essere degli altri. Altri che molto spesso, come abbiamo visto, hanno modi di pensare e fare differenti dai nostri. E con cui, continuamente, dobbiamo relazionarci.
– Quindi?
– Penso sia importante capire che questo tipo di autocontrollo non è solo un comportamento educato, urbano direi (il che non fa mai male) ma anche una postura importante del pensiero che permetta di avere uno scambio proficuo per e tra tutti perché evita le offese. Offese, oggetti contundenti che possiamo definire veri e propri muri cognitivi che bloccano la comprensione reciproca. E impediscono il dialogo, mentre è proprio a quest’ultimo, all’arte del farci attraversare dalle parole, di accoglierle che dobbiamo tendere se si vuole contribuire, pure col nostro piccolo granello di sabbia, al miglioramento dei rapporti sociali.

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