Dopo il 2006, anno della mia uscita dall’impegno militante (ultima tessera: Democratici di Sinistra-Sinistra Federalista Sarda), ha prevalso da parte mia un orientamento astensionista per tutti i livelli di elezioni politiche, regionali e amministrative, fatta eccezione per i referendum.
E fatta eccezione per tre occasioni, una certamente più lineare, le altre due non prive di un po’ di eccentricità.
Quella più “lineare” fu a favore del Presidente della coalizione sarda di centrosinistra nelle elezioni regionali del 2014.
Non c’è motivo che mi dilunghi in spiegazioni del perché lo feci e nemmeno del perché la vicenda di quell’esperienza di governo mi indusse a non ripetere un voto analogo nel 2019.
A quelle regionali votai per la lista di “Autodeterminatzione”.
Lo feci non esclusivamente, ma certo prevalentemente, sulla scia di una campagna non solo personale di protesta contro le leggi elettorali che, a livello regionale come a livello nazionale, si sono configurate come oligarchiche e irrispettose del dovere di lealtà democratica della politica nei confronti degli elettori.
Avevo fatto una scelta simile anche nelle elezioni politiche del 2018.
Alcune ragioni generali (i pessimi governi della legislatura allora appena conclusa, rispettivamente caratterizzati nella loro fase iniziale da una formula politica di compromesso con Berlusconi favorita dalle scelte del Capo dello Stato, Napolitano e nelle fasi successive dalla centralità nel PD della leadership di Matteo Renzi), altre particolari, come la politica di Minniti contro le ONG e contro i migranti, non mi consentivano di votare PD.
Non mi convinceva nemmeno il M5S, nonostante il suo apporto positivo alla sconfitta referendaria di Renzi nel 2016. Peraltro alcune mie curiosità e aperture di credito verso i grillini mi costarono aspre stigmatizzazioni da parte di un’area democratico-progressista, anche di stretti conoscenti, che li considerava tout court alla stregua di “sfascisti”, se non addirittura di fascisti, proprio per la loro aggressività talvolta feroce nei confronti della sinistra politica. Ne avrebbe fatto le spese dirette il povero Bersani nel famoso confronto in streaming con Grillo subito dopo le elezioni.
Ma il mio punto di discrimine valeva anche nei loro confronti: Grillo aveva equiparato a “topi” gli homeless di Roma e Di Maio aveva coniato la spregiativa e ostile definizione di “taxi del Mediterraneo” per le navi delle ONG impegnate nel salvataggio dei profughi. Ne avremmo visto gli sviluppi con i “decreti sicurezza” di ispirazione salviniana approvati dalla maggioranza parlamentare del Governo Conte 1.
Restava poi la questione del “Rosatellum”, approvato su iniziativa del PD, in limine di legislatura, dalla maggioranza che sosteneva il Governo Gentiloni, ma direi assai poco contrastato dalle altre forze politiche, che peraltro non hanno mosso un dito per cambiarlo neppure in questa ormai finita legislatura.
Non avevo particolare intenzione di votare, tuttavia per solidarietà verso le minoranze politiche di sinistra firmai e pubblicai un invito a sottoscrivere la raccolta di firme per la presentazione delle liste della formazione di “Potere al Popolo”, motivandolo appunto in chiave democratica e proporzionalista.
In quelle settimane i più oltranzisti del PD facevano una campagna intensissima per il “voto utile”, bollando ogni sostegno ad altri partiti, M5S in testa, ma non meno estendendo la bolla di scomunica alle forze politiche “alternative” minori, come un esplicito voto a favore alla destra.
Alcuni lo facevano in forma talmente rozza e arrogante da provocare non solo fastidio, ma persino la tentazione di una reazione esattamente di segno contrario.
Fu così che proprio a seguito di un contrasto sul tema con un compagno di antica conoscenza e persino di antica amicizia che si era caratterizzato proprio in questo zelo settario (tanto da arrivare alla fine a togliermi il contatto sul social), decisi pubblicamente di votare PaP, ancorchè, certo, quell’area di radicalismo di sinistra abbastanza archeologico non facesse particolarmente vibrare le mie corde.
Per inciso, molti compagni un tempo convinti aderenti e militanti del PD fin dalla sua fondazione e nel 2018 severissimi sostenitori del “voto utile”, poi fuoriusciti dal PD proprio con Bersani, oggi in disaccordo anche con lui nella scelta di restare in alleanza con Letta, sono diventati con la stessa solerzia contestatori radicali del “voto utile”, che per ora, a dire la verità, è poco evocato, certamente non con la medesima veemenza con cui lo brandivano loro a quel tempo.
Io oggi, se dovessi decidermi a votare, salva valutazione finale in esito alla campagna elettorale anche alla luce delle candidature nelle due circoscrizioni sarde, mi starei orientando sempre più verosimilmente a favore dei demoprogressisti.
Incide stavolta, come discrimine nei confronti dei competitori “alternativi”, M5S compreso, non lo nascondo, la loro vicinanza alle “ragioni russe” e il loro sostegno, talvolta neppure malcelato, all’aggressione militare di Putin contro l’Ucraina.
Ma anche prescindendo da questo discrimine, vi sono stringenti e concrete valutazioni politiche.
In esordio di questa campagna elettorale, Silvio Berlusconi ha detto chiaro e tondo che, qualora si verificassero le condizioni parlamentari (maggioranza assoluta oppure maggioranza relativa di governo della destra e ricerca di consensi aggiuntivi da parte di altre forze politiche nelle due Camere), la destra la riforma costituzionale presidenzialista, che comporterebbe la cancellazione della funzione unitaria del presidente della Repubblica quale garante della Costituzione, alla quale la Lega aggiungerebbe senz’altro l’autonomia differenziata rafforzata per le Regioni del Nord, che comporterebbe la definitiva divisione strutturale del Paese tra regioni più ricche in termini di risorse e regioni più povere, con la cancellazione della solidarietà finanziaria nazionale, la vuol fare davvero.
Aggiungiamoci l’abolizione del reddito di cittadinanza che colpirebbe i ceti più poveri, l’adozione della flat tax, che favorirebbe ulteriormente la condizione economica dei ceti più ricchi senza particolari vantaggi per il ceto medio basso e medio, la conseguente ulteriore riduzione delle risorse pubbliche per finanziare i servizi a partire da sanità e scuola, completiamo il tutto con la stretta securitaria poliziesca e xenofoba e cominciamo ad avere una plastica rappresentazione di cosa diventerebbe l’Italia nella prossima legislatura.
Non è da considerare solo il fatto che il programma della destra è tanto ingannevolmente populista quanto strutturalmente antipopolare.
Rifletterei anche sul fatto che si entrerebbe in una condizione pressocchè irreversibile, qualunque fosse la resistenza di forze d’opposizione indebolite in Parlamento e nel Paese da una sconfitta elettorale campale.
Ora, è vero che a questo programma bisognerebbe contrapporne uno da centrosinistra progressista avanzato, non meramente caratterizzato da un posizionamento difensivo.
Un siffatto programma al momento non c’è e non si è verificata neppure la condizione unitaria tra le forze democratiche perchè si formasse qualcosa di analogo.
L’improvvida scelta di provocare la caduta del Governo Draghi spianando la strada a che la destra calasse la prevedibile carta delle elezioni anticipate ha determinato l’impraticabilità di una larga coalizione progressista.
Tuttavia qualunque altra soluzione elettorale e politico-parlamentare democratica, anche moderata, che facesse saltare e scongiurasse tutti e ciascuno di questi punti del programma della destra sarebbe senz’altro più auspicabile di una loro vittoria.
Il fatto è che comunque nella contingenza attuale il tema del “voto utile” non si addice sic et simpliciter alla complessità di questa vicenda elettorale.
Perciò non lo userò.
Inviterei a non usarlo nemmeno da parte di chi nella sostanza ritenga che tanto la partita dell’alleanza di centrosinistra sia persa (perché non è scontato e non è scontata neppure l’eventuale proporzione), o da parte di chi ritenga -abbastanza irragionevolmente- che blocco di centrodestra e alleanza di centrosinistra siano due facce della stessa medaglia reazionaria, perciò il solo “voto utile” sarebbe quello contro entrambi questi due competitori.
Un’affermazione dell’una o dell’altra coalizione, come ho cercato di evidenziare, non comporterebbe affatto risultati analoghi.
La competizione principale è , oggettivamente, tra blocco di centrodestra e alleanza di centrosinistra e si gioca sul maggiore o minore successo delle liste circoscrizionali e delle candidature di collegio a collante PD. Chi non elegge nei collegi uninominali, in particolare, perde queste elezioni, che non sembrano destinate a produrre l’esito “tripolare” delle elezioni del 2018.
Più che di “voto utile” a questo punto si tratta tanto di aritmetica elementare quanto di precisa scelta politica.
Ciò premesso -e chi vuol intendere anche intuitivamente può intendere- resterebbe quanto segue.
Una campagna elettorale tutta giocata dal PD & C. contro o in difesa da M5S, Unione Popolare e, massì, mettiamoceli, Italia Sovrana di Marco Rizzo, distrarrebbe dal fronte dello scontro con la destra.
Specularmente una campagna elettorale da parte di M5S e Unione Popolare e, massì, mettiamoceli, i sovranisti più apertamente filorussi di Rizzo, i quali effettivamente sono già partiti con questa modalità, interamente segnata dall’attacco a PD & C., non solo non toglierebbe voti alla destra, ma metterebbe queste formazioni in contrasto esistenziale anzitutto tra loro stesse, dovendosi contendere il bacino degli scontenti ex PD, del radicalismo “antisistema”, dei sostenitori della Russia nella guerra contro l’Ucraina, per comprendervi ancora tutta una composita area di no vax, no green pass, no-tutto, area peraltro contesa pure dall’ex M5S Paragone con la sua Italexit, includente nelle proprie liste anche esponenti della destra radicale e persino neofascista.
Ove si riuscisse a evitare questo tipo di caratterizzazione del voto alternativo a quello dato ai demoprogressisti, perseguendo piuttosto lo scopo precipuo di richiamare al voto quote di astensionismo (non quindi di sottrarre ai demoprogressisti “in mero danno” il massimo possibile di voti e però nel contempo finendo per sottrarseli a vicenda, con saldo prevedibilmente molto poco favorevole), beh, allora qualche loro risultato potrebbe forse essere utile alla causa della sconfitta della destra.
Ma forse sto anch’io facendo nuovamente speculazioni eccentriche, se non addirittura fantascientifiche.
Elezioni 2022: bisogna considerare realisticamente le questioni in campo anche facendo tesoro delle precedenti esperienze. (di Tonino Dessì)
Dopo il 2006, anno della mia uscita dall’impegno militante (ultima tessera: Democratici di Sinistra-Sinistra Federalista Sarda), ha prevalso da parte mia un orientamento astensionista per tutti i livelli di elezioni politiche, regionali e amministrative, fatta eccezione per i referendum.
E fatta eccezione per tre occasioni, una certamente più lineare, le altre due non prive di un po’ di eccentricità.
Quella più “lineare” fu a favore del Presidente della coalizione sarda di centrosinistra nelle elezioni regionali del 2014.
Non c’è motivo che mi dilunghi in spiegazioni del perché lo feci e nemmeno del perché la vicenda di quell’esperienza di governo mi indusse a non ripetere un voto analogo nel 2019.
A quelle regionali votai per la lista di “Autodeterminatzione”.
Lo feci non esclusivamente, ma certo prevalentemente, sulla scia di una campagna non solo personale di protesta contro le leggi elettorali che, a livello regionale come a livello nazionale, si sono configurate come oligarchiche e irrispettose del dovere di lealtà democratica della politica nei confronti degli elettori.
Avevo fatto una scelta simile anche nelle elezioni politiche del 2018.
Alcune ragioni generali (i pessimi governi della legislatura allora appena conclusa, rispettivamente caratterizzati nella loro fase iniziale da una formula politica di compromesso con Berlusconi favorita dalle scelte del Capo dello Stato, Napolitano e nelle fasi successive dalla centralità nel PD della leadership di Matteo Renzi), altre particolari, come la politica di Minniti contro le ONG e contro i migranti, non mi consentivano di votare PD.
Non mi convinceva nemmeno il M5S, nonostante il suo apporto positivo alla sconfitta referendaria di Renzi nel 2016. Peraltro alcune mie curiosità e aperture di credito verso i grillini mi costarono aspre stigmatizzazioni da parte di un’area democratico-progressista, anche di stretti conoscenti, che li considerava tout court alla stregua di “sfascisti”, se non addirittura di fascisti, proprio per la loro aggressività talvolta feroce nei confronti della sinistra politica. Ne avrebbe fatto le spese dirette il povero Bersani nel famoso confronto in streaming con Grillo subito dopo le elezioni.
Ma il mio punto di discrimine valeva anche nei loro confronti: Grillo aveva equiparato a “topi” gli homeless di Roma e Di Maio aveva coniato la spregiativa e ostile definizione di “taxi del Mediterraneo” per le navi delle ONG impegnate nel salvataggio dei profughi. Ne avremmo visto gli sviluppi con i “decreti sicurezza” di ispirazione salviniana approvati dalla maggioranza parlamentare del Governo Conte 1.
Restava poi la questione del “Rosatellum”, approvato su iniziativa del PD, in limine di legislatura, dalla maggioranza che sosteneva il Governo Gentiloni, ma direi assai poco contrastato dalle altre forze politiche, che peraltro non hanno mosso un dito per cambiarlo neppure in questa ormai finita legislatura.
Non avevo particolare intenzione di votare, tuttavia per solidarietà verso le minoranze politiche di sinistra firmai e pubblicai un invito a sottoscrivere la raccolta di firme per la presentazione delle liste della formazione di “Potere al Popolo”, motivandolo appunto in chiave democratica e proporzionalista.
In quelle settimane i più oltranzisti del PD facevano una campagna intensissima per il “voto utile”, bollando ogni sostegno ad altri partiti, M5S in testa, ma non meno estendendo la bolla di scomunica alle forze politiche “alternative” minori, come un esplicito voto a favore alla destra.
Alcuni lo facevano in forma talmente rozza e arrogante da provocare non solo fastidio, ma persino la tentazione di una reazione esattamente di segno contrario.
Fu così che proprio a seguito di un contrasto sul tema con un compagno di antica conoscenza e persino di antica amicizia che si era caratterizzato proprio in questo zelo settario (tanto da arrivare alla fine a togliermi il contatto sul social), decisi pubblicamente di votare PaP, ancorchè, certo, quell’area di radicalismo di sinistra abbastanza archeologico non facesse particolarmente vibrare le mie corde.
Per inciso, molti compagni un tempo convinti aderenti e militanti del PD fin dalla sua fondazione e nel 2018 severissimi sostenitori del “voto utile”, poi fuoriusciti dal PD proprio con Bersani, oggi in disaccordo anche con lui nella scelta di restare in alleanza con Letta, sono diventati con la stessa solerzia contestatori radicali del “voto utile”, che per ora, a dire la verità, è poco evocato, certamente non con la medesima veemenza con cui lo brandivano loro a quel tempo.
Io oggi, se dovessi decidermi a votare, salva valutazione finale in esito alla campagna elettorale anche alla luce delle candidature nelle due circoscrizioni sarde, mi starei orientando sempre più verosimilmente a favore dei demoprogressisti.
Incide stavolta, come discrimine nei confronti dei competitori “alternativi”, M5S compreso, non lo nascondo, la loro vicinanza alle “ragioni russe” e il loro sostegno, talvolta neppure malcelato, all’aggressione militare di Putin contro l’Ucraina.
Ma anche prescindendo da questo discrimine, vi sono stringenti e concrete valutazioni politiche.
In esordio di questa campagna elettorale, Silvio Berlusconi ha detto chiaro e tondo che, qualora si verificassero le condizioni parlamentari (maggioranza assoluta oppure maggioranza relativa di governo della destra e ricerca di consensi aggiuntivi da parte di altre forze politiche nelle due Camere), la destra la riforma costituzionale presidenzialista, che comporterebbe la cancellazione della funzione unitaria del presidente della Repubblica quale garante della Costituzione, alla quale la Lega aggiungerebbe senz’altro l’autonomia differenziata rafforzata per le Regioni del Nord, che comporterebbe la definitiva divisione strutturale del Paese tra regioni più ricche in termini di risorse e regioni più povere, con la cancellazione della solidarietà finanziaria nazionale, la vuol fare davvero.
Aggiungiamoci l’abolizione del reddito di cittadinanza che colpirebbe i ceti più poveri, l’adozione della flat tax, che favorirebbe ulteriormente la condizione economica dei ceti più ricchi senza particolari vantaggi per il ceto medio basso e medio, la conseguente ulteriore riduzione delle risorse pubbliche per finanziare i servizi a partire da sanità e scuola, completiamo il tutto con la stretta securitaria poliziesca e xenofoba e cominciamo ad avere una plastica rappresentazione di cosa diventerebbe l’Italia nella prossima legislatura.
Non è da considerare solo il fatto che il programma della destra è tanto ingannevolmente populista quanto strutturalmente antipopolare.
Rifletterei anche sul fatto che si entrerebbe in una condizione pressocchè irreversibile, qualunque fosse la resistenza di forze d’opposizione indebolite in Parlamento e nel Paese da una sconfitta elettorale campale.
Ora, è vero che a questo programma bisognerebbe contrapporne uno da centrosinistra progressista avanzato, non meramente caratterizzato da un posizionamento difensivo.
Un siffatto programma al momento non c’è e non si è verificata neppure la condizione unitaria tra le forze democratiche perchè si formasse qualcosa di analogo.
L’improvvida scelta di provocare la caduta del Governo Draghi spianando la strada a che la destra calasse la prevedibile carta delle elezioni anticipate ha determinato l’impraticabilità di una larga coalizione progressista.
Tuttavia qualunque altra soluzione elettorale e politico-parlamentare democratica, anche moderata, che facesse saltare e scongiurasse tutti e ciascuno di questi punti del programma della destra sarebbe senz’altro più auspicabile di una loro vittoria.
Il fatto è che comunque nella contingenza attuale il tema del “voto utile” non si addice sic et simpliciter alla complessità di questa vicenda elettorale.
Perciò non lo userò.
Inviterei a non usarlo nemmeno da parte di chi nella sostanza ritenga che tanto la partita dell’alleanza di centrosinistra sia persa (perché non è scontato e non è scontata neppure l’eventuale proporzione), o da parte di chi ritenga -abbastanza irragionevolmente- che blocco di centrodestra e alleanza di centrosinistra siano due facce della stessa medaglia reazionaria, perciò il solo “voto utile” sarebbe quello contro entrambi questi due competitori.
Un’affermazione dell’una o dell’altra coalizione, come ho cercato di evidenziare, non comporterebbe affatto risultati analoghi.
La competizione principale è , oggettivamente, tra blocco di centrodestra e alleanza di centrosinistra e si gioca sul maggiore o minore successo delle liste circoscrizionali e delle candidature di collegio a collante PD. Chi non elegge nei collegi uninominali, in particolare, perde queste elezioni, che non sembrano destinate a produrre l’esito “tripolare” delle elezioni del 2018.
Più che di “voto utile” a questo punto si tratta tanto di aritmetica elementare quanto di precisa scelta politica.
Ciò premesso -e chi vuol intendere anche intuitivamente può intendere- resterebbe quanto segue.
Una campagna elettorale tutta giocata dal PD & C. contro o in difesa da M5S, Unione Popolare e, massì, mettiamoceli, Italia Sovrana di Marco Rizzo, distrarrebbe dal fronte dello scontro con la destra.
Specularmente una campagna elettorale da parte di M5S e Unione Popolare e, massì, mettiamoceli, i sovranisti più apertamente filorussi di Rizzo, i quali effettivamente sono già partiti con questa modalità, interamente segnata dall’attacco a PD & C., non solo non toglierebbe voti alla destra, ma metterebbe queste formazioni in contrasto esistenziale anzitutto tra loro stesse, dovendosi contendere il bacino degli scontenti ex PD, del radicalismo “antisistema”, dei sostenitori della Russia nella guerra contro l’Ucraina, per comprendervi ancora tutta una composita area di no vax, no green pass, no-tutto, area peraltro contesa pure dall’ex M5S Paragone con la sua Italexit, includente nelle proprie liste anche esponenti della destra radicale e persino neofascista.
Ove si riuscisse a evitare questo tipo di caratterizzazione del voto alternativo a quello dato ai demoprogressisti, perseguendo piuttosto lo scopo precipuo di richiamare al voto quote di astensionismo (non quindi di sottrarre ai demoprogressisti “in mero danno” il massimo possibile di voti e però nel contempo finendo per sottrarseli a vicenda, con saldo prevedibilmente molto poco favorevole), beh, allora qualche loro risultato potrebbe forse essere utile alla causa della sconfitta della destra.
Ma forse sto anch’io facendo nuovamente speculazioni eccentriche, se non addirittura fantascientifiche.
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Redazione Scuola