Chi è il sovrano? L’etimologia, secondo il Devoto, fa derivare la parola dal francese antico soverain, che sta sopra; e dal tardo latino superanus, che sta sopra il cerchio; in pratica: sovrano è chi (entità o persona) sta più in alto di tutti gli altri. Il filosofo del diritto Carl Schmitt (1888-1985) dopo la prima guerra mondiale scrisse che “sovrano è colui che decide dello stato di eccezione”; successivamente, a seguito della rivoluzione elettronica di radio e tv, riformulò la sua posizione affermando che “sovrano è colui che dispone delle onde spaziali”. Oggi, forse, modificherebbe ulteriormente il suo pensiero precisando che “sovrano è colui che dispone delle informazioni in rete”. Detta in altri termini: comanda chi detiene i social work, oggi trasformati in social media che hanno rivoluzionato le modalità di produzione e trasmissione delle informazioni. Non più unidirezionali, dall’alto verso il basso; o bidirezionali, da te che scrivi o trasmetti a me che leggo, ascolto o vedo, ma pluridirezionali, da tutti verso tutti, sia in orizzontale che in verticale. Una modalità che, secondo il filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han, ha totalmente trasformato le nostre vite: “La comunicazione digitale si contraddistingue per il fatto che le informazioni vengono prodotte, inviate e ricevute senza l’intervento di intermediari; esse non sono guidate e filtrate da un meditatore: l’azione dell’istanza mediatrice è sempre più abolita”, afferma Han in Nello sciame. Visioni del digitale (nottetempo). Docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universitat der Kunste a Berlino, Han si concentra soprattutto sull’analisi dell’attuale contemporaneità.
Il problema centrale, spiega, è che questa rivoluzione copernicana dell’informazione non ha reso le persone sovrane di sé stesse, più consapevoli della realtà in cui vivono e capaci di scelte autonome e razionali. Tutt’altro. Oggi – sottolinea Han in Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Einaudi) – viviamo nella società dell’informazione, che l’autore definisce anche “regime dell’informazione” confrontando col “il regime disciplinare”, fatto di “dominio e oppressione”. Ordinamento, quest’ultimo, tipico della capitalismo industriale in cui “ciascuno è un ingranaggio” e dove l’obiettivo è il controllo totale del corpo del lavoratore: “Nel regime disciplinare gli esseri umani sono addestrati a diventare bestie da lavoro”. Il capitalismo dell’informazione è, invece, “fondato sulla connessione e sulla comunicazione” in cui il soggetto “si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso”. E come in un paradosso “il dominio si compie nel momento in cui libertà e sorveglianza coincidono”.
Nel regime disciplinare si sviluppa, come accennato, un dominio sul corpo (“biopolitico”); in quello dell’informazione, un dominio sulla psiche (“psicopolitico”). Ma com’è possibile realizzare una forma di dominio così pervasiva partendo da una società in cui le informazioni sono completamente libere e la trasparenza di tutto viene valutata come un totem?
Andiamo per gradi. Innanzi tutto per Han “trasparenza e informazione sono sinonimi” e senza la prima non può esistere la seconda in quanto è proprio “l’imperativo della trasparenza” che “lascia che le informazioni circolino liberamente”. In questo modo tutti sono fruitori e produttori di informazioni in una corsa continua alla loro circolazione. Tanto che, altro punto importante per Han, “autenticamente liberi non sono gli esseri umani, ma le informazioni”. Ed è questa situazione che produce l’infocrazia, sistema dominato dai media digitali e che è in grado di danneggiare fortemente la democrazia, minando alla base la nostra stessa capacità di espressione autonoma e razionale. Vediamo.
Secondo Han “per una comprensione più profonda dell’infocrazia e della crisi democratica nel regime dell’informazione è necessaria una fenomenologia dell’informazione” dato che “questa crisi comincia già a livello cognitivo”. In pratica per l’autore di Infocrazia, le modalità con cui noi riceviamo e viviamo le informazioni prodotte all’interno del regime dell’informazione, quindi all’interno di un qualcosa che può essere considerato come un nuovo e gigantesco medium (i media digitali in tutte le loro articolazioni), condizionano il nostro modo di vedere, capire e vivere il mondo. Si intravede qui l’influenza del sociologo Marshall McLuhan (1911-1980) che evidenziò come il mezzo (il mondo digitale in questo caso) condizioni fortemente il messaggio.
Velocità, repentinità, loro cambio continuo e nostra spasmodica ricerca di informazioni sono gli elementi che caratterizzano gli ambienti digitali in cui viviamo generando così il “regime dell’informazione”. E qui inizia, secondo Han, un corposo nucleo di problemi. In questo quadro, infatti, “le informazioni hanno un ristretto margine d’attualità: manca loro la stabilità temporale, in quanto vivono del fascino della sorpresa”. Una sorpresa frutto per lo più di un’informazione mirata sui nostri gusti. Un fatto possibile grazie alla “psicometria, anche detta psicografia, (…) un procedimento per la profilazione della personalità basato sui dati. Il profiling psicometrico consente di prevedere il comportamento di una persona meglio di quanto saprebbero fare un amico o il partner”. Tutti noi abbiamo un cellulare, che funziona come smartphone e che ci permette di fare praticamente tutto o quasi, a parte il caffè. Bene, questo, precisa Han, “è un dispositivo psicometrico di registrazione, che giornalmente, anzi ogni ora, nutriamo di dati”. E che “permette di calcolare con esattezza la personalità del suo utilizzatore”.
D’accordo, ma perché tutto questo mette in crisi il nostro sistema cognitivo? Perché, ed ecco un altro nucleo di problemi, “a causa dell’instabilità temporale”, questo flusso continuo di informazione “frammenta la percezione” e “getta la realtà in un vortice permanente di attualità”, compromettendo la percezione del presente come incubatore di conoscenze del passato e del futuro. Non solo, per Han il sovraccarico di informazioni aumenta la distanza da quelle “pratiche cognitive temporalmente intensive, come il sapere, l’esperienza e la conoscenza”, che vengono come “rimosse dall’obbligo all’accelerazione tipico delle informazioni” nel regime dell’informazione. “Oggi il tempo è spezzettato a tutti i livelli”. E questo conduce anche a un ulteriore effetto molto negativo: il tendenziale annullamento dello spazio intermedio che rappresenta, invece, “il luogo di una relazione dinamica tra dimensioni simboliche, etiche, e cognitive del mondo”, come affermano Fabio Merlini e Silvano Tagliagambe In Catastrofi dell’immediatezza (Rosenberg & Sellier).
E perché tutto questo è esiziale per la democrazia? Perché, sottolinea Han, “le architetture portanti del tempo, che stabilizzano la vita e la percezione, si erodono a vista d’occhio” a causa della “generale rapidità della società dell’informazione”. Mentre “il discorso” (dal latino discursus, discurrere, scorrere da una cosa all’altra), tipico dell’articolazione della parola nel processo democratico, “ha insita in sé una temporalità che mal si accorda con la comunicazione accelerata, frammentata: esso è una prassi temporalmente intensiva”. Infatti “le decisioni democratiche sono costruite a lungo termine: sono precedute da una riflessione che si estende al di là dell’istante, verso il passato e il futuro”. Nella società dell’informazione, invece, “la costrizione alla comunicazione accelerata ci depriva della razionalità”; e viene rafforzata “l’esperienza della contingenza” a tutto discapito della “stabilità dell’essere”, ovvero della capacità di vedere al di là del contingente.
Tuttavia nel vivere quotidiano nel regime dell’informazione, tutti devono prendere decisioni e fare scelte. “Messi sotto pressione ripieghiamo sull’intelligenza”. Proprietà, quest’ultima che, per Han, è lontanissima dal pensiero razionale inteso nel significato anzi detto in quanto “l’azione intelligente si orienta alle soluzioni e ai risultati rapidi”. E qui Han riprende, citandolo, il sociologo Niklas Luhmann (1927-1998): “In una società dell’informazione non si può più parlare di comportamento razionale, ma semmai soltanto di comportamento intelligente”. Che, nel mondo concettuale del filosofo coreano, sembra equivalere a “comportamento algoritmico”.
Contrariamente alla filosofa della politica Hanna Arendt (1906-1975), “ancora convinta che le verità fattuali, nonostante la loro vulnerabilità, siano ostinate (…) l’ostinazione e la tenacia dei fatti appartengono ormai al passato”. Infatti “l’ordine digitale abolisce in generale la solidità del fattuale, anzi la solidità dell’essere, totalizzando la producibilità”. Nella “producibilità totale”, per Han “non c’è nulla che non possa essere annullato”. Ed è questo un altro nodo problematico: “Il mondo digitalizzato, cioè informatizzato, è tutt’altro che ostinato e tenace. Piuttosto può essere modellato e manipolato a piacimento”, come nelle news di Trump. “La digitalità – sottolinea con forza l’autore di Infocrazia – è diametralmente opposta alla fatticità”. Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi)titolaun suo precedente libro in cui si prefigura un futuro con un essere umano che si dedica solo a una “libertà in punta di dita” ma che “non agisce” perché, e torniamo a Infocrazia, oggi “le informazioni non hanno potere di orientamento”. E questo perché, ed ecco l’ultimo nodo problematico, soffocati e confusi dall’infodemia, abbiamo tutti perso la possibilità di una verità discorsiva nel senso del filosofo Jurgen Habermas in cui “l’idea di verità si misura in base al fatto che la pretesa di verità delle asserzioni sia discorsivamente riscattabile”. Aspetto, quest’ultimo che sancisce e chiude il forte pessimismo di Han.
Stimolante e molto più ricco di queste brevi note, Infocrazia conduce a molte considerazioni. Mi sembra, però che manchi una riflessione squisitamente teorica sul ruolo di rottura (anche epistemologica) di tutta la galassia ecologista, femminista, giovanile che si sta sviluppando e rafforzando in questi ultimi anni.
Infocrazia (di Roberto Paracchini)
Chi è il sovrano? L’etimologia, secondo il Devoto, fa derivare la parola dal francese antico soverain, che sta sopra; e dal tardo latino superanus, che sta sopra il cerchio; in pratica: sovrano è chi (entità o persona) sta più in alto di tutti gli altri. Il filosofo del diritto Carl Schmitt (1888-1985) dopo la prima guerra mondiale scrisse che “sovrano è colui che decide dello stato di eccezione”; successivamente, a seguito della rivoluzione elettronica di radio e tv, riformulò la sua posizione affermando che “sovrano è colui che dispone delle onde spaziali”. Oggi, forse, modificherebbe ulteriormente il suo pensiero precisando che “sovrano è colui che dispone delle informazioni in rete”. Detta in altri termini: comanda chi detiene i social work, oggi trasformati in social media che hanno rivoluzionato le modalità di produzione e trasmissione delle informazioni. Non più unidirezionali, dall’alto verso il basso; o bidirezionali, da te che scrivi o trasmetti a me che leggo, ascolto o vedo, ma pluridirezionali, da tutti verso tutti, sia in orizzontale che in verticale. Una modalità che, secondo il filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han, ha totalmente trasformato le nostre vite: “La comunicazione digitale si contraddistingue per il fatto che le informazioni vengono prodotte, inviate e ricevute senza l’intervento di intermediari; esse non sono guidate e filtrate da un meditatore: l’azione dell’istanza mediatrice è sempre più abolita”, afferma Han in Nello sciame. Visioni del digitale (nottetempo). Docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universitat der Kunste a Berlino, Han si concentra soprattutto sull’analisi dell’attuale contemporaneità.
Il problema centrale, spiega, è che questa rivoluzione copernicana dell’informazione non ha reso le persone sovrane di sé stesse, più consapevoli della realtà in cui vivono e capaci di scelte autonome e razionali. Tutt’altro. Oggi – sottolinea Han in Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Einaudi) – viviamo nella società dell’informazione, che l’autore definisce anche “regime dell’informazione” confrontando col “il regime disciplinare”, fatto di “dominio e oppressione”. Ordinamento, quest’ultimo, tipico della capitalismo industriale in cui “ciascuno è un ingranaggio” e dove l’obiettivo è il controllo totale del corpo del lavoratore: “Nel regime disciplinare gli esseri umani sono addestrati a diventare bestie da lavoro”. Il capitalismo dell’informazione è, invece, “fondato sulla connessione e sulla comunicazione” in cui il soggetto “si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso”. E come in un paradosso “il dominio si compie nel momento in cui libertà e sorveglianza coincidono”.
Nel regime disciplinare si sviluppa, come accennato, un dominio sul corpo (“biopolitico”); in quello dell’informazione, un dominio sulla psiche (“psicopolitico”). Ma com’è possibile realizzare una forma di dominio così pervasiva partendo da una società in cui le informazioni sono completamente libere e la trasparenza di tutto viene valutata come un totem?
Andiamo per gradi. Innanzi tutto per Han “trasparenza e informazione sono sinonimi” e senza la prima non può esistere la seconda in quanto è proprio “l’imperativo della trasparenza” che “lascia che le informazioni circolino liberamente”. In questo modo tutti sono fruitori e produttori di informazioni in una corsa continua alla loro circolazione. Tanto che, altro punto importante per Han, “autenticamente liberi non sono gli esseri umani, ma le informazioni”. Ed è questa situazione che produce l’infocrazia, sistema dominato dai media digitali e che è in grado di danneggiare fortemente la democrazia, minando alla base la nostra stessa capacità di espressione autonoma e razionale. Vediamo.
Secondo Han “per una comprensione più profonda dell’infocrazia e della crisi democratica nel regime dell’informazione è necessaria una fenomenologia dell’informazione” dato che “questa crisi comincia già a livello cognitivo”. In pratica per l’autore di Infocrazia, le modalità con cui noi riceviamo e viviamo le informazioni prodotte all’interno del regime dell’informazione, quindi all’interno di un qualcosa che può essere considerato come un nuovo e gigantesco medium (i media digitali in tutte le loro articolazioni), condizionano il nostro modo di vedere, capire e vivere il mondo. Si intravede qui l’influenza del sociologo Marshall McLuhan (1911-1980) che evidenziò come il mezzo (il mondo digitale in questo caso) condizioni fortemente il messaggio.
Velocità, repentinità, loro cambio continuo e nostra spasmodica ricerca di informazioni sono gli elementi che caratterizzano gli ambienti digitali in cui viviamo generando così il “regime dell’informazione”. E qui inizia, secondo Han, un corposo nucleo di problemi. In questo quadro, infatti, “le informazioni hanno un ristretto margine d’attualità: manca loro la stabilità temporale, in quanto vivono del fascino della sorpresa”. Una sorpresa frutto per lo più di un’informazione mirata sui nostri gusti. Un fatto possibile grazie alla “psicometria, anche detta psicografia, (…) un procedimento per la profilazione della personalità basato sui dati. Il profiling psicometrico consente di prevedere il comportamento di una persona meglio di quanto saprebbero fare un amico o il partner”. Tutti noi abbiamo un cellulare, che funziona come smartphone e che ci permette di fare praticamente tutto o quasi, a parte il caffè. Bene, questo, precisa Han, “è un dispositivo psicometrico di registrazione, che giornalmente, anzi ogni ora, nutriamo di dati”. E che “permette di calcolare con esattezza la personalità del suo utilizzatore”.
D’accordo, ma perché tutto questo mette in crisi il nostro sistema cognitivo? Perché, ed ecco un altro nucleo di problemi, “a causa dell’instabilità temporale”, questo flusso continuo di informazione “frammenta la percezione” e “getta la realtà in un vortice permanente di attualità”, compromettendo la percezione del presente come incubatore di conoscenze del passato e del futuro. Non solo, per Han il sovraccarico di informazioni aumenta la distanza da quelle “pratiche cognitive temporalmente intensive, come il sapere, l’esperienza e la conoscenza”, che vengono come “rimosse dall’obbligo all’accelerazione tipico delle informazioni” nel regime dell’informazione. “Oggi il tempo è spezzettato a tutti i livelli”. E questo conduce anche a un ulteriore effetto molto negativo: il tendenziale annullamento dello spazio intermedio che rappresenta, invece, “il luogo di una relazione dinamica tra dimensioni simboliche, etiche, e cognitive del mondo”, come affermano Fabio Merlini e Silvano Tagliagambe In Catastrofi dell’immediatezza (Rosenberg & Sellier).
E perché tutto questo è esiziale per la democrazia? Perché, sottolinea Han, “le architetture portanti del tempo, che stabilizzano la vita e la percezione, si erodono a vista d’occhio” a causa della “generale rapidità della società dell’informazione”. Mentre “il discorso” (dal latino discursus, discurrere, scorrere da una cosa all’altra), tipico dell’articolazione della parola nel processo democratico, “ha insita in sé una temporalità che mal si accorda con la comunicazione accelerata, frammentata: esso è una prassi temporalmente intensiva”. Infatti “le decisioni democratiche sono costruite a lungo termine: sono precedute da una riflessione che si estende al di là dell’istante, verso il passato e il futuro”. Nella società dell’informazione, invece, “la costrizione alla comunicazione accelerata ci depriva della razionalità”; e viene rafforzata “l’esperienza della contingenza” a tutto discapito della “stabilità dell’essere”, ovvero della capacità di vedere al di là del contingente.
Tuttavia nel vivere quotidiano nel regime dell’informazione, tutti devono prendere decisioni e fare scelte. “Messi sotto pressione ripieghiamo sull’intelligenza”. Proprietà, quest’ultima che, per Han, è lontanissima dal pensiero razionale inteso nel significato anzi detto in quanto “l’azione intelligente si orienta alle soluzioni e ai risultati rapidi”. E qui Han riprende, citandolo, il sociologo Niklas Luhmann (1927-1998): “In una società dell’informazione non si può più parlare di comportamento razionale, ma semmai soltanto di comportamento intelligente”. Che, nel mondo concettuale del filosofo coreano, sembra equivalere a “comportamento algoritmico”.
Contrariamente alla filosofa della politica Hanna Arendt (1906-1975), “ancora convinta che le verità fattuali, nonostante la loro vulnerabilità, siano ostinate (…) l’ostinazione e la tenacia dei fatti appartengono ormai al passato”. Infatti “l’ordine digitale abolisce in generale la solidità del fattuale, anzi la solidità dell’essere, totalizzando la producibilità”. Nella “producibilità totale”, per Han “non c’è nulla che non possa essere annullato”. Ed è questo un altro nodo problematico: “Il mondo digitalizzato, cioè informatizzato, è tutt’altro che ostinato e tenace. Piuttosto può essere modellato e manipolato a piacimento”, come nelle news di Trump. “La digitalità – sottolinea con forza l’autore di Infocrazia – è diametralmente opposta alla fatticità”. Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi)titolaun suo precedente libro in cui si prefigura un futuro con un essere umano che si dedica solo a una “libertà in punta di dita” ma che “non agisce” perché, e torniamo a Infocrazia, oggi “le informazioni non hanno potere di orientamento”. E questo perché, ed ecco l’ultimo nodo problematico, soffocati e confusi dall’infodemia, abbiamo tutti perso la possibilità di una verità discorsiva nel senso del filosofo Jurgen Habermas in cui “l’idea di verità si misura in base al fatto che la pretesa di verità delle asserzioni sia discorsivamente riscattabile”. Aspetto, quest’ultimo che sancisce e chiude il forte pessimismo di Han.
Stimolante e molto più ricco di queste brevi note, Infocrazia conduce a molte considerazioni. Mi sembra, però che manchi una riflessione squisitamente teorica sul ruolo di rottura (anche epistemologica) di tutta la galassia ecologista, femminista, giovanile che si sta sviluppando e rafforzando in questi ultimi anni.
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Redazione Scuola