Dunque la trattativa ci fu: conseguente alla <<iniziativa improvvida>> di tre alti ufficiali dai Carabinieri che – mossi dall’intento di fermare la strategia stragista messa in atto da Cosa Nostra a seguito della conferma da parte della Cassazione dell’impianto del maxiprocesso – avviarono <<in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio>> una interlocuzione con Vito Ciancimino. Obiettivo: incunearsi nelle divisioni presenti nella fazione corleonese; neutralizzare la ubris sanguinaria del “pazzo” Riina favorendo l’ala “moderata” di Bernardo Provenzano.
<<Essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico più pericoloso>>: la trattativa ci fu, orientata da <<indicibili ragioni di interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra e che sancirono l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità e della sommersione>>. Interessi indicibili che spiegano la mancata perquisizione del covo del Capo dei Capi al momento del suo arresto, e alla luce dei quali si spiega la lunghissima latitanza dello Zù Binnu, terminata solo nel 2006.
La trattativa ci fu: improvvida, indicibile, ma non qualificabile in termini di reato.
Le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che – in parziale riforma della pronuncia di primo grado – ha disposto l’assoluzione di Moro, De Donno e Subranni dal reato di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato da un lato sconfessano le posizioni di quanti, alla lettura del dispositivo, avevano descritto l’impianto accusatorio alla stregua di “una ben congegnata strategia per triturare la vita agli imputati”, ordita da “un sistema mediatico-giudiziario che ha usato questo processo per esercitare un potere di influenza sulla politica e sulla vita sociale del Paese”. D’altro, lasciano intatte una serie di zone d’ombra che continuano a gravitare su una delle vicende più controverse della storia italiana del dopoguerra: zone d’ombra destinate ad essere oggetto tanto del giudizio della Cassazione, quanto, in un futuro non troppo lontano, delle riflessioni e delle valutazioni degli storici.
In primo luogo, viene da chiedere come – operando financo alle spalle dello stesso Borsellino, che la sentenza in analisi descrive come del tutto ignaro del dipanarsi della “trattativa” – tre ufficiali dei carabinieri abbiano potuto disporre dell’autonomia necessaria per porre in atto una strategia di intelligence tanto estrema. E soprattutto, collocandosi siffatta strategia al di fuori di ogni logica di coordinamento, viene da chiedere perché i suddetti ufficiali non siano mai stati chiamati a rispondere sul piano disciplinare e della progressione di carriera di quello che rimane <<uno spregio dei doveri inerenti al loro ufficio>>.
In secondo luogo, si pone il problema di stabilire le relazioni tra siffatta strategia di intelligence e le stragi di Via dei Georgofili, Via Palestro, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, che, nell’estate del 1993, attribuivano plastica consistenza alla minaccia del Colpo di Stato. Fino all’ultimo miglio, al fallito attentato allo Stadio Olimpico programmato per il gennaio del 1994: periodo nel quale, ad avviso della Corte palermitana, era ancora in essere il dialogo tra Vittorio Mangano (descritto proprio da Borsellino come una delle teste di ponte della Mafia al Nord) e Marcello Dell’Utri, a sua volta assolto poiché non risulta dimostrata la trasmissione dei desiderata di Cosa Nostra al futuro Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Ma soprattutto, se, come recentemente ha ribadito il Presidente Mattarella, la lotta alla criminalità organizzata non ammette la configurabilità di <<nessuna zona grigia, nessuna omertà né tacita connivenza: o si sta contro la Mafia o si è complici dei mafiosi>>, emerge in tutta la sua drammatica evidenza la necessità di comprendere quale superiore interesse nazionale possa, anche a distanza di vent’anni dalla stagione delle bombe, rendere (non giustificabile ma quantomeno) concepibile <<una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma solo in ragione di un’obiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa Nostra>>. Ibrida alleanza peraltro teorizzata mentre l’odore del tritolo, dell’asfalto dilaniato e del sangue rappreso ancora gravitava sopra lo svincolo di Capaci, e mentre, a Palermo e nel Paese, divampava incontrollabile il dolore e la rabbia verso gli assassini di Falcone.
Materiale per il giudizio della Cassazione, materiale per le riflessioni degli storici, si diceva. Entrambi destinati a muovere da una certezza: la trattativa non fu un teorema. La trattativa ci fu, nel quadro di una strategia piena di punti oscuri.
La trattativa ci fu. Improvvida e indicibile.
La trattativa ci fu: improvvida e indicibile (di Carlo Dore Jr)
Dunque la trattativa ci fu: conseguente alla <<iniziativa improvvida>> di tre alti ufficiali dai Carabinieri che – mossi dall’intento di fermare la strategia stragista messa in atto da Cosa Nostra a seguito della conferma da parte della Cassazione dell’impianto del maxiprocesso – avviarono <<in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio>> una interlocuzione con Vito Ciancimino. Obiettivo: incunearsi nelle divisioni presenti nella fazione corleonese; neutralizzare la ubris sanguinaria del “pazzo” Riina favorendo l’ala “moderata” di Bernardo Provenzano.
<<Essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico più pericoloso>>: la trattativa ci fu, orientata da <<indicibili ragioni di interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra e che sancirono l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità e della sommersione>>. Interessi indicibili che spiegano la mancata perquisizione del covo del Capo dei Capi al momento del suo arresto, e alla luce dei quali si spiega la lunghissima latitanza dello Zù Binnu, terminata solo nel 2006.
La trattativa ci fu: improvvida, indicibile, ma non qualificabile in termini di reato.
Le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che – in parziale riforma della pronuncia di primo grado – ha disposto l’assoluzione di Moro, De Donno e Subranni dal reato di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato da un lato sconfessano le posizioni di quanti, alla lettura del dispositivo, avevano descritto l’impianto accusatorio alla stregua di “una ben congegnata strategia per triturare la vita agli imputati”, ordita da “un sistema mediatico-giudiziario che ha usato questo processo per esercitare un potere di influenza sulla politica e sulla vita sociale del Paese”. D’altro, lasciano intatte una serie di zone d’ombra che continuano a gravitare su una delle vicende più controverse della storia italiana del dopoguerra: zone d’ombra destinate ad essere oggetto tanto del giudizio della Cassazione, quanto, in un futuro non troppo lontano, delle riflessioni e delle valutazioni degli storici.
In primo luogo, viene da chiedere come – operando financo alle spalle dello stesso Borsellino, che la sentenza in analisi descrive come del tutto ignaro del dipanarsi della “trattativa” – tre ufficiali dei carabinieri abbiano potuto disporre dell’autonomia necessaria per porre in atto una strategia di intelligence tanto estrema. E soprattutto, collocandosi siffatta strategia al di fuori di ogni logica di coordinamento, viene da chiedere perché i suddetti ufficiali non siano mai stati chiamati a rispondere sul piano disciplinare e della progressione di carriera di quello che rimane <<uno spregio dei doveri inerenti al loro ufficio>>.
In secondo luogo, si pone il problema di stabilire le relazioni tra siffatta strategia di intelligence e le stragi di Via dei Georgofili, Via Palestro, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, che, nell’estate del 1993, attribuivano plastica consistenza alla minaccia del Colpo di Stato. Fino all’ultimo miglio, al fallito attentato allo Stadio Olimpico programmato per il gennaio del 1994: periodo nel quale, ad avviso della Corte palermitana, era ancora in essere il dialogo tra Vittorio Mangano (descritto proprio da Borsellino come una delle teste di ponte della Mafia al Nord) e Marcello Dell’Utri, a sua volta assolto poiché non risulta dimostrata la trasmissione dei desiderata di Cosa Nostra al futuro Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Ma soprattutto, se, come recentemente ha ribadito il Presidente Mattarella, la lotta alla criminalità organizzata non ammette la configurabilità di <<nessuna zona grigia, nessuna omertà né tacita connivenza: o si sta contro la Mafia o si è complici dei mafiosi>>, emerge in tutta la sua drammatica evidenza la necessità di comprendere quale superiore interesse nazionale possa, anche a distanza di vent’anni dalla stagione delle bombe, rendere (non giustificabile ma quantomeno) concepibile <<una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma solo in ragione di un’obiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa Nostra>>. Ibrida alleanza peraltro teorizzata mentre l’odore del tritolo, dell’asfalto dilaniato e del sangue rappreso ancora gravitava sopra lo svincolo di Capaci, e mentre, a Palermo e nel Paese, divampava incontrollabile il dolore e la rabbia verso gli assassini di Falcone.
Materiale per il giudizio della Cassazione, materiale per le riflessioni degli storici, si diceva. Entrambi destinati a muovere da una certezza: la trattativa non fu un teorema. La trattativa ci fu, nel quadro di una strategia piena di punti oscuri.
La trattativa ci fu. Improvvida e indicibile.
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Redazione Scuola