di Fernando Codonesu
Se è vero che in questi ultimi tre mesi vi sono stati importanti piccoli passi avanti dell’Europa che, messi insieme come dice Franco Ventroni (http://www.democraziaoggi.it/?p=6530; www.manifestosardo.org/leuropa-che-vogliamo-un-piccolo-passo-in-avanti), fanno segnare una vera svolta della politica dell’istituzione comunitaria di fronte ai problemi sanitari, economici e finanziari generati dalla pandemia da COVID-19 in tutta l’area europea, è per me anche condivisibile la posizione più cauta, direi laica e disincantata, con un pizzico di sana diffidenza che non guasta, sostenuta da Roberto Mirasola (www.manifestosardo.org/prospettive-pericolose). Altra è la posizione di chi intende lavorare per un’altra Europa tutta da inventare e da costruire, una posizione così idealistica, marginale e iperminoritaria, fatta propria da certa sinistra fuori dal principio di realtà, su cui non intendo soffermarmi in questa sede.
In sostanza, dal mio punto di vista, le due posizioni di Ventroni e Mirasola riflettono due angolazioni complementari e chi fa politica le deve seguire entrambe, perché la partita che si gioca sul campo europeo è quella che va giocata fino all’ultimo minuto e si vince solo se si sanno creare alleanze politiche e culturali tali da dispiegare rapporti di forza complessivamente più favorevoli alla causa italiana e a quella dei paesi maggiormente indebitati.
Quello che abbiamo di fronte è un cammino così irto di difficoltà e di pericoli che richiede nervi saldi, determinazione e un quadro politico nazionale molto più coeso di quello che vediamo tutti i giorni per delineare un programma di “ricostruzione” che abbia qualche possibilità di successo.
Il quadro economico e politico nazionale e internazionale ha visto negli ultimi due mesi oltre 4 miliardi di persone in lockdown, un fatto mai successo nella storia, con tutto quel che ne consegue: con la sola esclusione della Cina il cui PIL per il 2020 è atteso a +1%, in tutto il resto del mondo si registra una grave recessione, con punte di vera e propria depressione economica per alcuni paesi che durerà nel tempo.
Possiamo affermare che la crisi dovuta alla pandemia da COVID-19 è molto più devastante di quella di origine finanziaria del 2007/8. Al riguardo, oggi negli USA sono stati diffusi i dati sull’occupazione del settore privato che nel solo mese di aprile ha avuto una perdita di 20,2 milioni di posti di lavoro mentre nel mese di febbraio del 2009, per fare un raffronto significativo, erano venuti a mancare 835.000 posti di lavoro!
Nel 2019, dopo 12 anni dalla crisi finanziaria e poi economica del 2007/8, il PIL del nostro paese presentava ancora un differenziale di sei punti percentuali in meno rispetto ai dati pre crisi, con un miliardo di ore lavorate in meno pur in presenza di un numero di occupati leggermente superiore al dato del 2008. Mantenendo gli stessi parametri operativi nell’andamento dell’economia nel decennio 2010/2019, peraltro non dissimile da ciò che abbiamo visto almeno a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso, e considerando le capacità di reazione e di organizzazione del lavoro italiano già ampiamente verificate in questo periodo storico, è facile prevedere che per riprenderci dal colpo inferto dalla pandemia del coronavirus alla nostra economia ci sarà bisogno di uno sforzo senza pari per almeno 20/25 anni: forse di più, sicuramente non meno!
Insomma, una generazione, forse una generazione e mezza per riprenderci e ritornare al livello attuale, ma continuerebbe purtroppo a permanere quel differenziale del 6% in meno mai colmato rispetto al PIL italiano prima del 2008.
Una brutta prospettiva, mi pare.
A questo punto la discussione tutta italiana sui risultati dell’eurogruppo e la validità degli strumenti in campo come il MES, gli eurobond, il recovery fund, il ruolo della BCE vanno inquadrati in questo quadro generale e non avendo a riferimento i nostri soliti confini nazionali e, tanto meno, le beghe quotidiane di alcune forze politiche nostrane per qualche potenziale voto in più da raccattare nei sondaggi.
Parafrasando qualcuno si può dire molta, troppa confusione sotto il cielo, solo che la situazione non è “eccellente”, ma pessima da qualunque parte la si guardi.
Il quadro appena delineato è ancora più fosco se si ragiona sui dati appena esposti dalla Commissione europea sulla recessione di tutta l’Europa, con l’atteso calo del PIL più pesante per il trio di coda Spagna (-9.4%), Italia (-9.5%) e Grecia (-9.7%).
Per noi si profila un debito al 155% del PIL, ma più probabilmente è destinato ad aumentare di almeno altri 10-15 punti: un disastro, specialmente se venisse a mancare l’ombrello della BCE.
In questo quadro già difficile e molto problematico di per sé si è abbattuta la sentenza della corte costituzionale della Germania che, comunque la si veda e nonostante il parere rassicurante del Presidente del Consiglio Conte che nell’intervista concessa al Fatto quotidiano ha rimarcato che la legislazione europea, e quindi le decisioni assunte dalla BCE riguardanti il QE (Quantitative Easing, acquisto dei titoli di stato dei vari paesi, a partire da quelli con maggiori sofferenze a causa dell’altro debito pubblico), è prevalente rispetto alle sentenze di qualunque Corte costituzionale degli Stati aderenti, costituisce un ulteriore grave colpo alla costruzione dell’Europa di cui mette a nudo per lo meno la farraginosità dei suoi meccanismi decisionali.
L’ulteriore stallo è evidente se si pensa che la Bundesbank è tenuta “contemporaneamente” a rispettare le decisioni della BCE e quelle della propria Corte costituzionale. A me sembra evidente che in caso di decisione conflittuale come il concorso ai prossimi acquisti dei Bond degli Stati indebitati la posizione interna tedesca per il NO, diverrà prevalente e l’eventuale decisione di altri acquisti da parte della BCE, in qualunque forma, sotto l’ombrello del QE diverrà alla lunga insostenibile.
Non bastasse tutto questo, pare che ci siano all’orizzonte anche alcune condizionalità sul MES dedicato agli aspetti sanitari del COVID-19, volute dalla solita Olanda che, anche in questo caso, pare agisca sotto dettatura in lingua tedesca.
Pur apprezzando i piccoli passi positivi evidenziati da Ventroni nei suoi interventi, in questo quadro allora meglio, molto meglio un atteggiamento guardingo e disincantato, perché in economia come nella politica, a qualunque livello, le decisioni vengono assunte sulla base dei rapporti di forza e queste sono ancorate a precisi filoni culturali e, aggiungerei, religiosi con radici secolari ampiamente note.
In questa Europa caratterizzata in politica estera dalla Francia e nella politica economica e fiscale dall’interesse prevalente della Germania, ora che sembra finalmente definito il ruolo ambiguo svolto dalla Gran Bretagna con la decisione sulla Brexit, per certi aspetti continuano ad essere presenti nella politica europea atteggiamenti ereditati da quelle che furono note come guerre di religione di altre epoche storiche, purtroppo mai del tutto accantonate e superate.
Gratta, gratta, infatti, al fondo dei due diversi approcci ai problemi dell’Europa vi sono due visioni culturali (quasi tre fino a tutto il 2019 se si tiene conto della Gran Bretagna) che hanno un fondo religioso.
A proposito del rigore dei paesi del Nord Europa si dice infatti che si tratti di un approccio da formiche laboriose, di contro ai paesi latini, gli spendaccioni, che vengono continuamente accomunati alle cicale canterine.
Ma è proprio così?
Se diamo dei nomi e cognomi alle “formiche”, ovvero Germania, Olanda, Svezia, Finlandia e Austria, è facile osservare che si tratta di culture che hanno come riferimento Lutero e Calvino e, al riguardo, per comprendere appieno la valenza del protestantesimo quale fondamento del capitalismo moderno si rimanda alla lucida e profonda analisi svolta da Max Weber nel libro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
In buona sostanza già con Lutero, e quindi con Calvino, la povertà francescana come via per la testimonianza di Dio è stata espunta dal credo di fondo degli aderenti alla chiesa riformata a vantaggio dell’etica del lavoro e dell’accumulazione della ricchezza sulla terra.
Già per Lutero la concezione del sacro si era spostata dall’abito monacale all’abito civile, per esigenza di sintesi si può dire che il principio cardine benedettino “ora et labora” che rappresentava l’essenza del monachesimo, veniva spostato nel tempo di tutti i giorni e nella costruzione del lavoro: è il lavoro che costituisce l’aspetto sacrale, tanto più alto quanto più consente il successo e la ricchezza.
Per i calvinisti, il lavoro rappresenta un’evidenza etica e il profitto, lungi dal rappresentare come proposto da Marx il frutto dello sfruttamento della classe lavoratrice, diventa lo scopo della vita perché il guadagno è il risultato dell’abilità individuale. Quando poi la concentrazione e l’accumulazione del capitale in poche mani diventa così enorme da far gridare alcuni allo scandalo della disuguaglianza quale manifestazione diabolica dell’ingiustizia sociale, per queste culture non c’è nessun problema, neanche di coscienza, in quanto si tratta di un risultato delle capacità individuali che viene premiato da Dio.
A differenza dell’insegnamento cattolico per cui è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli, qui non è così. I ricchi sono i predestinati, hanno già tracciato la propria autostrada per il paradiso grazie alla ricchezza accumulata con il proprio lavoro: il profitto è professione, la professione è il profitto, il profitto è sacro e benedetto da Dio: è la via maestra per il paradiso.
Nessuno sfruttamento e nessun ripensamento: tutt’al più c’è lo spazio per un po’ di “carità pelosa” nei confronti dei più diseredati possibilmente per farne cassa di risonanza mediatica ed aumentare ancora di più la possibilità di accrescimento della propria ricchezza agli occhi del proprio Dio.
Credo che dobbiamo ricordare sempre che queste sono le cosiddette formiche dei paesi del nord Europa e da qui deriva il comportamento di fondo sul rigore dei conti che viene preteso anche per gli altri paesi europei, anche di altre religioni e ancor di più nei confronti dei laici e dei non credenti: è una cultura e non un atteggiamento estemporaneo o il frutto avvelenato della costruzione europea.
E l’Europa è quella che è, quella che vediamo tutti i giorni, non quella dei nostri sogni o quella pensata dai padri fondatori.
Se l’euroscetticismo avanza e il sogno dell’Europa viene meno in larga parte dell’elettorato europeo, come non ricordare che questo è tutto da addebitare alle scelte politiche compiute dai singoli stati a cominciare da chi ha boicottato i referendum nazionali indetti per l’approvazione del progetto di costituzione europea nel 2005. Sul punto giova riportare alcune date di cronaca diventata storia.
In data 29 ottobre 2004 a Roma veniva firmata solennemente la Costituzione europea. Dopo nemmeno un anno, tra maggio e giugno del 2005, i francesi e gli olandesi bocciarono quell’idea poco amata e al seppellimento definitivo provvidero britannici, polacchi e danesi sospendendo i loro referendum e rendendone così impossibile la ratifica.
Il tradimento della Costituzione, però, nasce ancora prima e parte dal momento in cui si forza la mano nel voler definire come Costituzione un progetto di riforma e di semplificazione dei trattati in vigore senza un reale processo costituente.
Un processo costituente infatti implicherebbe una rifondazione di sovranità e di legittimità democratica, con un popolo che si sente prima europeo e si dà una specifica cittadinanza per questo: prima europei e poi italiani, francesi, olandesi, tedeschi, ecc.
Già nel 2001, quando si avviarono i lavori per il progetto di Costituzione europea non c’era niente di tutto questo: nei governi dei singoli Stati non vi era posto per alcuna delega di sovranità o cessione di legittimità.
In quel caso, 15 anni fa, abbiamo avuto la convergenza di interessi di fatto delle tre grandi religioni cristiane (protestanti luterani-calvinisti, protestanti anglicani e cattolici dopo l’inutile battaglia fatta da papa Wojtyla per l’inserimento delle radici cristiane nel preambolo della Carta in approvazione e non approvato da Giscard D’Estaing che presiedeva il gruppo di estensori della Carta). La mancata approvazione è costata molto a larghe parti dei popoli europei che in quel progetto avevano creduto e su cui avevano riposto grandi speranze, non certo alle élite degli Stati che hanno portato avanti il boicottaggio sistematico dell’idea di cittadinanza europea e della conseguente necessità di una specifica Costituzione, quale preludio per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Certo oggi abbiamo una generazione Erasmus e ci sono e ci saranno i figli di questa generazione: su di loro va riposta la speranza per i cittadini europei di domani e non più dei singoli Stati, ma questo è di là da venire.
Nel momento in cui il progetto di costituzione abortì dopo il primo voto contrario dell’Olanda (guarda caso!) e della Francia che intendeva probabilmente anche impedire che l’ex presidente Giscard passasse alla storia, si trovano le radici dell’euroscetticismo e del populismo che oggi caratterizza larga parte dell’elettorato europeo e questo impone a quei romantici sognatori che continuano a credere nella necessità dell’Europa di aprire gli occhi e attrezzarsi con gli occhiali della realtà alla luce del sole per trasformare quel sogno in un progetto reale. Un progetto che per andare avanti ha bisogno di militanti che apprezzino i piccoli passi positivi dei tavoli decisori come sottolinea Franco Ventroni, anche sognatori perché senza sogno non c’è vita, ma al contempo guardinghi, disincantati e con un pizzico di diffidenza che non guasta, come suggerisce tra le righe Roberto Mirasola.
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L’Europa è una sola, non è quella dei nostri sogni
di Fernando Codonesu
Se è vero che in questi ultimi tre mesi vi sono stati importanti piccoli passi avanti dell’Europa che, messi insieme come dice Franco Ventroni (http://www.democraziaoggi.it/?p=6530; www.manifestosardo.org/leuropa-che-vogliamo-un-piccolo-passo-in-avanti), fanno segnare una vera svolta della politica dell’istituzione comunitaria di fronte ai problemi sanitari, economici e finanziari generati dalla pandemia da COVID-19 in tutta l’area europea, è per me anche condivisibile la posizione più cauta, direi laica e disincantata, con un pizzico di sana diffidenza che non guasta, sostenuta da Roberto Mirasola (www.manifestosardo.org/prospettive-pericolose). Altra è la posizione di chi intende lavorare per un’altra Europa tutta da inventare e da costruire, una posizione così idealistica, marginale e iperminoritaria, fatta propria da certa sinistra fuori dal principio di realtà, su cui non intendo soffermarmi in questa sede.
In sostanza, dal mio punto di vista, le due posizioni di Ventroni e Mirasola riflettono due angolazioni complementari e chi fa politica le deve seguire entrambe, perché la partita che si gioca sul campo europeo è quella che va giocata fino all’ultimo minuto e si vince solo se si sanno creare alleanze politiche e culturali tali da dispiegare rapporti di forza complessivamente più favorevoli alla causa italiana e a quella dei paesi maggiormente indebitati.
Quello che abbiamo di fronte è un cammino così irto di difficoltà e di pericoli che richiede nervi saldi, determinazione e un quadro politico nazionale molto più coeso di quello che vediamo tutti i giorni per delineare un programma di “ricostruzione” che abbia qualche possibilità di successo.
Il quadro economico e politico nazionale e internazionale ha visto negli ultimi due mesi oltre 4 miliardi di persone in lockdown, un fatto mai successo nella storia, con tutto quel che ne consegue: con la sola esclusione della Cina il cui PIL per il 2020 è atteso a +1%, in tutto il resto del mondo si registra una grave recessione, con punte di vera e propria depressione economica per alcuni paesi che durerà nel tempo.
Possiamo affermare che la crisi dovuta alla pandemia da COVID-19 è molto più devastante di quella di origine finanziaria del 2007/8. Al riguardo, oggi negli USA sono stati diffusi i dati sull’occupazione del settore privato che nel solo mese di aprile ha avuto una perdita di 20,2 milioni di posti di lavoro mentre nel mese di febbraio del 2009, per fare un raffronto significativo, erano venuti a mancare 835.000 posti di lavoro!
Nel 2019, dopo 12 anni dalla crisi finanziaria e poi economica del 2007/8, il PIL del nostro paese presentava ancora un differenziale di sei punti percentuali in meno rispetto ai dati pre crisi, con un miliardo di ore lavorate in meno pur in presenza di un numero di occupati leggermente superiore al dato del 2008. Mantenendo gli stessi parametri operativi nell’andamento dell’economia nel decennio 2010/2019, peraltro non dissimile da ciò che abbiamo visto almeno a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso, e considerando le capacità di reazione e di organizzazione del lavoro italiano già ampiamente verificate in questo periodo storico, è facile prevedere che per riprenderci dal colpo inferto dalla pandemia del coronavirus alla nostra economia ci sarà bisogno di uno sforzo senza pari per almeno 20/25 anni: forse di più, sicuramente non meno!
Insomma, una generazione, forse una generazione e mezza per riprenderci e ritornare al livello attuale, ma continuerebbe purtroppo a permanere quel differenziale del 6% in meno mai colmato rispetto al PIL italiano prima del 2008.
Una brutta prospettiva, mi pare.
A questo punto la discussione tutta italiana sui risultati dell’eurogruppo e la validità degli strumenti in campo come il MES, gli eurobond, il recovery fund, il ruolo della BCE vanno inquadrati in questo quadro generale e non avendo a riferimento i nostri soliti confini nazionali e, tanto meno, le beghe quotidiane di alcune forze politiche nostrane per qualche potenziale voto in più da raccattare nei sondaggi.
Parafrasando qualcuno si può dire molta, troppa confusione sotto il cielo, solo che la situazione non è “eccellente”, ma pessima da qualunque parte la si guardi.
Il quadro appena delineato è ancora più fosco se si ragiona sui dati appena esposti dalla Commissione europea sulla recessione di tutta l’Europa, con l’atteso calo del PIL più pesante per il trio di coda Spagna (-9.4%), Italia (-9.5%) e Grecia (-9.7%).
Per noi si profila un debito al 155% del PIL, ma più probabilmente è destinato ad aumentare di almeno altri 10-15 punti: un disastro, specialmente se venisse a mancare l’ombrello della BCE.
In questo quadro già difficile e molto problematico di per sé si è abbattuta la sentenza della corte costituzionale della Germania che, comunque la si veda e nonostante il parere rassicurante del Presidente del Consiglio Conte che nell’intervista concessa al Fatto quotidiano ha rimarcato che la legislazione europea, e quindi le decisioni assunte dalla BCE riguardanti il QE (Quantitative Easing, acquisto dei titoli di stato dei vari paesi, a partire da quelli con maggiori sofferenze a causa dell’altro debito pubblico), è prevalente rispetto alle sentenze di qualunque Corte costituzionale degli Stati aderenti, costituisce un ulteriore grave colpo alla costruzione dell’Europa di cui mette a nudo per lo meno la farraginosità dei suoi meccanismi decisionali.
L’ulteriore stallo è evidente se si pensa che la Bundesbank è tenuta “contemporaneamente” a rispettare le decisioni della BCE e quelle della propria Corte costituzionale. A me sembra evidente che in caso di decisione conflittuale come il concorso ai prossimi acquisti dei Bond degli Stati indebitati la posizione interna tedesca per il NO, diverrà prevalente e l’eventuale decisione di altri acquisti da parte della BCE, in qualunque forma, sotto l’ombrello del QE diverrà alla lunga insostenibile.
Non bastasse tutto questo, pare che ci siano all’orizzonte anche alcune condizionalità sul MES dedicato agli aspetti sanitari del COVID-19, volute dalla solita Olanda che, anche in questo caso, pare agisca sotto dettatura in lingua tedesca.
Pur apprezzando i piccoli passi positivi evidenziati da Ventroni nei suoi interventi, in questo quadro allora meglio, molto meglio un atteggiamento guardingo e disincantato, perché in economia come nella politica, a qualunque livello, le decisioni vengono assunte sulla base dei rapporti di forza e queste sono ancorate a precisi filoni culturali e, aggiungerei, religiosi con radici secolari ampiamente note.
In questa Europa caratterizzata in politica estera dalla Francia e nella politica economica e fiscale dall’interesse prevalente della Germania, ora che sembra finalmente definito il ruolo ambiguo svolto dalla Gran Bretagna con la decisione sulla Brexit, per certi aspetti continuano ad essere presenti nella politica europea atteggiamenti ereditati da quelle che furono note come guerre di religione di altre epoche storiche, purtroppo mai del tutto accantonate e superate.
Gratta, gratta, infatti, al fondo dei due diversi approcci ai problemi dell’Europa vi sono due visioni culturali (quasi tre fino a tutto il 2019 se si tiene conto della Gran Bretagna) che hanno un fondo religioso.
A proposito del rigore dei paesi del Nord Europa si dice infatti che si tratti di un approccio da formiche laboriose, di contro ai paesi latini, gli spendaccioni, che vengono continuamente accomunati alle cicale canterine.
Ma è proprio così?
Se diamo dei nomi e cognomi alle “formiche”, ovvero Germania, Olanda, Svezia, Finlandia e Austria, è facile osservare che si tratta di culture che hanno come riferimento Lutero e Calvino e, al riguardo, per comprendere appieno la valenza del protestantesimo quale fondamento del capitalismo moderno si rimanda alla lucida e profonda analisi svolta da Max Weber nel libro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
In buona sostanza già con Lutero, e quindi con Calvino, la povertà francescana come via per la testimonianza di Dio è stata espunta dal credo di fondo degli aderenti alla chiesa riformata a vantaggio dell’etica del lavoro e dell’accumulazione della ricchezza sulla terra.
Già per Lutero la concezione del sacro si era spostata dall’abito monacale all’abito civile, per esigenza di sintesi si può dire che il principio cardine benedettino “ora et labora” che rappresentava l’essenza del monachesimo, veniva spostato nel tempo di tutti i giorni e nella costruzione del lavoro: è il lavoro che costituisce l’aspetto sacrale, tanto più alto quanto più consente il successo e la ricchezza.
Per i calvinisti, il lavoro rappresenta un’evidenza etica e il profitto, lungi dal rappresentare come proposto da Marx il frutto dello sfruttamento della classe lavoratrice, diventa lo scopo della vita perché il guadagno è il risultato dell’abilità individuale. Quando poi la concentrazione e l’accumulazione del capitale in poche mani diventa così enorme da far gridare alcuni allo scandalo della disuguaglianza quale manifestazione diabolica dell’ingiustizia sociale, per queste culture non c’è nessun problema, neanche di coscienza, in quanto si tratta di un risultato delle capacità individuali che viene premiato da Dio.
A differenza dell’insegnamento cattolico per cui è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli, qui non è così. I ricchi sono i predestinati, hanno già tracciato la propria autostrada per il paradiso grazie alla ricchezza accumulata con il proprio lavoro: il profitto è professione, la professione è il profitto, il profitto è sacro e benedetto da Dio: è la via maestra per il paradiso.
Nessuno sfruttamento e nessun ripensamento: tutt’al più c’è lo spazio per un po’ di “carità pelosa” nei confronti dei più diseredati possibilmente per farne cassa di risonanza mediatica ed aumentare ancora di più la possibilità di accrescimento della propria ricchezza agli occhi del proprio Dio.
Credo che dobbiamo ricordare sempre che queste sono le cosiddette formiche dei paesi del nord Europa e da qui deriva il comportamento di fondo sul rigore dei conti che viene preteso anche per gli altri paesi europei, anche di altre religioni e ancor di più nei confronti dei laici e dei non credenti: è una cultura e non un atteggiamento estemporaneo o il frutto avvelenato della costruzione europea.
E l’Europa è quella che è, quella che vediamo tutti i giorni, non quella dei nostri sogni o quella pensata dai padri fondatori.
Se l’euroscetticismo avanza e il sogno dell’Europa viene meno in larga parte dell’elettorato europeo, come non ricordare che questo è tutto da addebitare alle scelte politiche compiute dai singoli stati a cominciare da chi ha boicottato i referendum nazionali indetti per l’approvazione del progetto di costituzione europea nel 2005. Sul punto giova riportare alcune date di cronaca diventata storia.
In data 29 ottobre 2004 a Roma veniva firmata solennemente la Costituzione europea. Dopo nemmeno un anno, tra maggio e giugno del 2005, i francesi e gli olandesi bocciarono quell’idea poco amata e al seppellimento definitivo provvidero britannici, polacchi e danesi sospendendo i loro referendum e rendendone così impossibile la ratifica.
Il tradimento della Costituzione, però, nasce ancora prima e parte dal momento in cui si forza la mano nel voler definire come Costituzione un progetto di riforma e di semplificazione dei trattati in vigore senza un reale processo costituente.
Un processo costituente infatti implicherebbe una rifondazione di sovranità e di legittimità democratica, con un popolo che si sente prima europeo e si dà una specifica cittadinanza per questo: prima europei e poi italiani, francesi, olandesi, tedeschi, ecc.
Già nel 2001, quando si avviarono i lavori per il progetto di Costituzione europea non c’era niente di tutto questo: nei governi dei singoli Stati non vi era posto per alcuna delega di sovranità o cessione di legittimità.
In quel caso, 15 anni fa, abbiamo avuto la convergenza di interessi di fatto delle tre grandi religioni cristiane (protestanti luterani-calvinisti, protestanti anglicani e cattolici dopo l’inutile battaglia fatta da papa Wojtyla per l’inserimento delle radici cristiane nel preambolo della Carta in approvazione e non approvato da Giscard D’Estaing che presiedeva il gruppo di estensori della Carta). La mancata approvazione è costata molto a larghe parti dei popoli europei che in quel progetto avevano creduto e su cui avevano riposto grandi speranze, non certo alle élite degli Stati che hanno portato avanti il boicottaggio sistematico dell’idea di cittadinanza europea e della conseguente necessità di una specifica Costituzione, quale preludio per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Certo oggi abbiamo una generazione Erasmus e ci sono e ci saranno i figli di questa generazione: su di loro va riposta la speranza per i cittadini europei di domani e non più dei singoli Stati, ma questo è di là da venire.
Nel momento in cui il progetto di costituzione abortì dopo il primo voto contrario dell’Olanda (guarda caso!) e della Francia che intendeva probabilmente anche impedire che l’ex presidente Giscard passasse alla storia, si trovano le radici dell’euroscetticismo e del populismo che oggi caratterizza larga parte dell’elettorato europeo e questo impone a quei romantici sognatori che continuano a credere nella necessità dell’Europa di aprire gli occhi e attrezzarsi con gli occhiali della realtà alla luce del sole per trasformare quel sogno in un progetto reale. Un progetto che per andare avanti ha bisogno di militanti che apprezzino i piccoli passi positivi dei tavoli decisori come sottolinea Franco Ventroni, anche sognatori perché senza sogno non c’è vita, ma al contempo guardinghi, disincantati e con un pizzico di diffidenza che non guasta, come suggerisce tra le righe Roberto Mirasola.
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