Migrazioni & solidarietà
riflessioni di Roberto Paracchini
Racconta Erodoto che Ciro, il fondatore dell’impero persiano mandò alcuni emissari a verificare come fossero fatte queste città greche, Atene in particolare, che “osavano” contrastare l’egemonia del suo impero sulle coste dell’asia minore. Al ritorno – narra sempre Erodoto – il resoconto tranquillizzò Ciro che, abituato alle grandi strutture intese anche come simbolo di potere, pensò non ci fosse nulla da temere “da un posto con un buco nel mezzo, in cui la gente si incontra per parlare”. Il valore dell’agorà, della piazza insomma, (luogo anche delle assemblee dei cittadini e del teatro) non venne tenuto in alcun conto. Poi arrivarono le sconfitte di Maratona e Salamina.
Le piazze, seppure nate in occasioni e con funzioni differenti, sono sempre state punto di incontro e di scambio.
Piazza Matteotti, ad esempio, edificata nella seconda metà dell’Ottocento come giardino della stazione delle ferrovie Reali di Cagliari, voleva simbolicamente essere anche un luogo di incontro e probabilmente di benvenuto; certamente di scambio tra chi arrivava e chi partiva, quasi il contrario di quello che è oggi, imbrigliata in robuste ringhiere e con passaggi rigidamente delimitati. Ovvio, le piazze possono assumere funzioni differenti, ma sempre all’interno di una prospettiva di incontro e di dialogo verbale e/o commerciale. Piazza Matteotti, invece, è oggi diventata quasi un simbolo locale di quel che sta avvenendo nel mondo, una cartina di tornasole delle chiusure e dei muri reali e simbolici verso l’altro, lo straniero o chi viene considerato differente da noi: l’immigrato soprattutto. Non si dimentichi che sino a poco tempo fa piazza Matteotti era uno dei luoghi di incontro degli immigrati nelle loro varie declinazioni di regolari e irregolari.
Quindi migrazioni: dei profughi dalle guerre e di chi fugge da degrado, fame e malattie; persone, queste ultime, dette impropriamente e spesso con sufficienza “migranti economici”, come se il diritto alla vita fosse un optional. Migrazioni che impronteranno sempre più il XXI secolo e che, viste le premesse, possono essere definite epocali (per i prossimi trent’anni si parla di varie centinaia di milioni di persone) che interesseranno non solo i paesi limitrofi alle regioni di fuga, ma soprattutto l’occidente, così sostengono autorevoli demografi, storici e geografi (come ad esempio Stefano Allevi e Gianpiero Dalla Zuanna in Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’IMMIGRAZIONE). Ipotesi sostenute anche dall’ONU: l’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, stima che il numero di persone costrette a fuggire a livello globale abbia superato, nonostante il Covid, gli 82,4 milioni nel 2020 e sia in continuo aumento). Questo tipo di migrazioni diventeranno prioritarie in rapporto a quelle che normalmente avvengono per motivi di lavoro o familiari; considerate a basso impatto e che interessano soprattutto l’Europa e l’Asia. Nel 2019 questo tipo di abituali migrazioni ha visto spostarsi oltre 271 milioni di persone (dati del rapporto annuale del 2020 di Caritas-Migrantes). Al di là delle migrazioni passate, dall’Italia del 1861 al 1961 sono emigrate 25 milioni di persone, le cifre di Caritas-Migrantes confermano come il mondo contemporaneo viva su una continua mobilità. Eppure oggi si ergono muri materiali e simbolici per impedire le migrazioni dei più fragili. Che fare, quindi? Vediamo.
Nel paese di arrivo forse le situazioni più problematiche sono prodotte dagli indifferenti. Albert Einstein diceva che “il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza fare nulla”, gli indifferenti appunto. Senza fare nulla, ad esempio, verso il montante sgretolamento di qualsiasi diritto ad un’esistenza degna di questo nome, cavalcata da chi fomenta l’economia della paura impedendo gli sbarchi ad esempio, o esternalizzando i blocchi come avviene in Libia coi campi di contenimento, per lo più veri e propri lager.
Senza entrare nel merito delle cause, che andrebbero rimosse ma che ora amplierebbero troppo il discorso, che producono le migrazioni (guerre per le fonti energetiche, le terre, l’acqua, i nuovi imperialismi, soprattutto degli Usa e della Cina ecc.), diamo due cifre per smontare le tesi dell’economia della paura basata fondamentalmente sull’ignoranza e, in parte, la malafede. Con l’attuale tasso di denatalità, da qui a vent’anni l’Italia vedrà una drastica riduzione della sua popolazione in età lavorativa (dai 20 ai 64 anni) che passerà da 36 a 29 milioni; e vi sarà anche una diminuzione del numero dei giovani al di sotto dei vent’anni, da 11,2 a 9,7 milioni. Mentre gli anziani sopra i 65 anni aumenteranno da 13,3 a 17,8 milioni. Se invece si volesse mantenere costante la popolazione lavorativa (considerata dagli economisti fondamentale per lo sviluppo di un Paese) ogni anno dovrebbero entrare in Italia – a saldo – 325.000 potenziali lavoratori. Altro che blocco all’immigrazione!
Qualcuno potrebbe però dire che la denatalità è il frutto di mancanza di politiche specifiche. Giusto e queste politiche di stimolo alla natalità (asili nido, politiche di supporto per le donne ecc.) vanno sviluppate ed è una vergogna per un Paese civile che ancora non lo si sia fatto. Ma si tratta di interventi che cominciano a dare risultati tangibili dopo una trentina d’anni.
Intanto l’economia della paura non solo calpesta il diritto internazionale e la tradizionale cultura dell’accoglienza verso chi viene dal mare, ma non ha nemmeno paura del ridicolo con parole d’ordine come “no alle invasioni”, usate per le poche migliaia di persone arrivate in Italia e che fuggono dalle guerre e dalla fame; e spregiudicatamente soffia sui disagi e le paure che l’attuale crisi (economico-sanitaria) ha fatto ulteriormente emergere fomentando l’ignoranza – “prima gli italiani” – come se noi non fossimo una popolazione culturalmente ricchissima di storia e cultura proprio perché stratificata e meticciata da una porosità naturale dei nostri confini.
Ma nei Paesi di arrivo c’è anche una sensibilità diffusa che parla di solidarietà. Un concetto importantissimo che, e al di là degli apporti delle culture tradizionali orientali – dal confucianesimo, all’induismo, al buddismo – affonda le sue radici più autorevoli in Immanuel Kant che nella Critica della ragion pratica poneil seguente imperativo categorico: “Agisci in modo tale da trattare l’umanità sia nella tua persona sia in quella di ogni altro sempre come fine e mai semplicemente come mezzo”. Il che implica, per poter diventare fattuale, una interrelazione paritaria tra tutti i componenti dell’umanità. Impostazione ripresa dal primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 in cui si afferma che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Ed è ripresa anche dalla Costituzione italiana che nell’articolo due sottolinea che ”la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…), e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Poche righe che ribadiscono come la solidarietà sia il frutto dell’inscindibile interconnessione tra diritti inviolabili e doveri inderogabili. La solidarietà diventa quindi un valore fondante per gli stessi diritti e questi diventano fondanti per la stessa solidarietà.
Fatte queste premesse va ricordato che nell’attuale contemporaneità una maggiore sensibilità verso la solidarietà è stata sviluppata soprattutto dal cattolicesimo e dal socialismo sociale, da ampi settori del pensiero liberale e dalle culture tradizionali orientali prima accennate. Nell’attuale crisi economico-sanitaria, però, la solidarietà nuota in acque molto agitate. Non è un caso, ad esempio, che nell’attuale Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) non vi sia alcun capitolo specifico (ma nemmeno un paragrafo) dedicato all’immigrazione. Forse perché, come è stato fatto in passato, l’immigrazione viene considerata un problema di sicurezza e non come una potenzialità? E’ per questo che il concetto di solidarietà, in questo caso strettamente legato all’accoglienza, va rafforzato per stimolarne uno sviluppo maggiore e non più “relegato” soltanto, o in prevalenza, all’associazionismo sociale e culturale, e al terzo settore (pur benemeriti); è necessario, invece, espanderlo al maggior numero di settori della società.
Per come storicamente e teoricamente si è sviluppato, il concetto di solidarietà implica un rapporto per lo più verticale: chi ha dà, chi può fa ecc. in solido e/o in impegno del proprio tempo. Tutti atteggiamenti – come accennato – certamente encomiabili e indispensabili ma che sono numericamente limitati e qualitativamente non ottimali perché stimolano meno l’auto-emancipazione. Il che significa che se si vuole ampliare l’efficacia degli interventi di solidarietà sono necessarie modalità di azione in grado di innescare interscambi che si sviluppino principalmente in orizzontale e non più prevalentemente in verticale, ovvero che siano reciproci. Questo implica che possano partire da entrambe le parti e, quindi, essere collegabili a una reciproca obbligazione, ponendo quindi gli attori interessati in posizioni di reciproca parità e di condivisione.
Una scommessa? Certo, ma non un’utopia come “non luogo”, bensì realtà persistente e intrisa di possibilità virtuose. Occorre, al dunque, una nuova strategia che ponga al centro le migrazioni come uno dei temi trainanti della nostra epoca, quale in effetti è assieme all’ecosostenibilità, dato anche che i due fenomeni sono strettamente legati. Le migrazioni sono infatti anche il frutto – come in parte accennato – della politica di rapina del territorio e dell’ambiente.
Reciproca parità, si è detto, in quanto una reciproca obbligazione implica una condivisione, che va oltre un semplice scambio per diventare accordo sui ruoli da avere in un progetto, possibile da realizzare solo tra pari, tra persone con pari diritti. Mentre oggi così non è a partire ad esempio dal diritto di cittadinanza che gli immigrati non hanno. Eppure i diritti per i più deboli implicano sempre un “irrobustimento” degli stessi per chi li ha già.
In questa prospettiva occorre essere pragmatici e attivarsi di conseguenza con politiche del qui ed ora in grado di operare a piccoli passi pur in un quadro di norme nazionali restrittive-irrazionali in quanto stimolano l’irregolarità come il restringimento della durata dei tempi di soggiorno e le difficoltà per ottenerlo. Un quadro che, posto un impegno forte per modificarlo, non impedisce però l’attivazione di norme-indirizzo (comunali e regionali) volte all’inclusione. Ipotesi realizzabile a patto che si abbia la volontà politica di promuoverla elaborando e attivando norme specifiche, a cui anche l’università potrebbe dare un valido contributo, in grado di creare un quadro stimolante per lo sviluppo dei progetti.
Prima di chiudere queste brevi riflessioni, un cenno al multi culturalismo, che pure ha avuto un ruolo storico importante nell’accettazione di culture altre; ma che oggi comincia a mostrare tutti i suoi limiti, primo tra tutti l’aver creato comparti e comunità scarsamente comunicanti tra loro, come le passate rivolte nelle banlieue francesi hanno ampiamente dimostrato. Oggi il discorso importante verte sul come creare interrelazioni, da cui nascano i circoli virtuosi, pur se più difficili da raggiungere. In questa prospettiva l’ipotesi più corretta sembra essere l’interculturalismo, in cui è possibile creare scambi alla pari, ovvero momenti di “negoziazione” culturale reciproca all’interno di un quadro ampio di valori condivisi: la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, in Italia, anche i primi dodici articoli della costituzione italiana.
Roberto Paracchini
Grazie. Sono osservazioni molto interessanti e ricche di spunti per un dibattito sul tema.