Ragionare su un nuovo statuto speciale della Sardegna con un preciso orientamento verso l’autogoverno può sembrare oggi un passo temerario, al limite del velleitarismo insensato per alcuni, tanto più se si considera la profonda crisi economico sociale che vive la Sardegna da almeno tre decenni.
Abbiamo qualche numero tragicamente importante come il record nazionale (forse europeo) della più bassa natalità e una diminuzione netta di circa 100.000 residenti negli ultimi 20 anni, nonostante gli apporti netti in termini di immigrati residenti.
E va considerato che i nostri emigrati sono quasi sempre giovani altamente formati, laureati o diplomati, e quelli che non lo sono appartengono comunque a quella fascia di età costituita da lavoratori intraprendenti, costretti a trovare altrove il luogo in cui lavorare e poter vivere serenamente.
Un’isola, dunque, per certi versi sempre più vecchia, demoralizzata e rassegnata, governata malissimo specie in quest’ultima tornata del centrodestra che pare non finisca mai, soprattutto alla luce del malfermo tavolo del centrosinistra attivo dal sette luglio dell’anno corrente.
Eppure, nonostante questa situazione tutt’altro che favorevole, ragionare sull’autogoverno si deve e si può, innanzitutto ripensando e riscrivendo il nostro statuto di autonomia speciale.
Sono convinto della necessità improcrastinabile di affrontare da cinque punti di vista quella che continua ad essere nota come la “questione sarda” all’interno del rapporto centro-periferia (che riguarda ampie parti della stessa Europa), analizzato ampiamente da diverse angolazioni a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso.
Le contraddizioni insite nel rapporto centro-periferia, in Sardegna ha portato alla creazione di nuovi movimenti politici a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, caratterizzati da obiettivi e parole d’ordine espressione di prospettive autonomiste, sovraniste e indipendentiste. Negli anni vi è stato il rafforzamento di partiti espressione del sardismo e della cultura del popolo sardo (ora decisamente declinanti), così come un rinnovato interesse per le tematiche legate alla sardità anche all’interno dei partiti politici nazionali presenti in Sardegna.
Quando si parla del rapporto centro – periferia si assume come metodo di analisi l’insieme simultaneo delle discriminanti parametriche conosciute come le tre “d”, distanza dal centro, ovvero dai luoghi decisionali del potere, in primis, per quanto ci riguarda, da Roma e da Bruxelles; differenza per cui è opportuno chiedersi se ci sono caratteristiche specifiche di questo popolo periferico, come quelle di tipo etnico-culturale, storiche, linguistiche, antropologiche, identitarie, di popolo come nazione ancorché senza Stato, ecc.; dipendenza, ovvero quanto si dipende oggi dal centro oppure se c’è un’interconnessione economica e sociale oramai così stretta tra la Sardegna-periferia e il centro, ragione per cui sarebbe antistorico porre questo problema.
In effetti a me pare che nel rapporto Sardegna/Italia continuino a perdurare tutti gli elementi di reale distanza, differenza e dipendenza tra centro e periferia che nel 1948 portarono all’approvazione dello statuto di autonomia speciale e che, per certi versi, tali parametri si siano aggravati negli ultimi decenni.
Da qui nasce l’esigenza di riscrivere il nostro statuto speciale in modo che vi siano contenuti gli insegnamenti ideali e le relative prospettive programmatiche che vengono da protagonisti della nostra storia politica e culturale come Angioy, Tuveri, Asproni, Gramsci, Bellieni, Lussu, Simon Mossa, Melis, nonché dai movimenti politici popolari, identitari, etno-culturali, sovranisti e indipendentisti attivi in Sardegna dagli anni ’70 del secolo scorso ai giorni nostri.
Il tema fondamentale della riscrittura dello Statuto e le sei materie su indicate a mio avviso dovrebbero essere affrontate dai seguenti cinque punti di vista: politico, tecnico-scientifico, economico-occupazionale e finanziario, fiscale e tributario, giuridico-costituzionale.
Fermo restando che la scrittura dello Statuto può essere fatta nella cornice dei vincoli derivanti dalla Costituzione e dallo Statuto vigenti e che tale compito istituzionale spetta al Consiglio Regionale nelle forme politiche e organizzative che riterrà opportune, il quinto punto di vista dovrebbe entrare nel merito di quale statuto, con quali modalità operative e quali tempistiche in base alla Costituzione e allo Statuto vigenti, ivi comprese le norme attuative, delineandone possibili soluzioni percorribili.
Per questa necessità di un approccio multilaterale a temi così rilevanti c’è bisogno di più voci e per questo, come Scuola di cultura politica Francesco Cocco, stiamo lavorando ad un convegno su questi temi che riunisca protagonisti provenienti da mondi diversi della politica, dell’economia, della ricerca e delle professioni e della società civile impegnata sui temi della cittadinanza.
Che le sei materie Energia, Governo del territorio, Urbanistica, Ambiente, Paesaggio e Trasporti siano totalmente interdipendenti tra loro è un fatto e non un’opinione.
Per quanto mi riguarda, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e dei singoli individui, riconosciuto dagli organismi internazionali, è il faro che deve guidare l’azione politica di tutti, a qualunque latitudine. Da qui partono alcune delle riflessioni che intendo sviluppare, ancorché sinteticamente, in questo intervento.
Il diritto all’autodeterminazione delle autonomie locali si realizza nel rispetto della Costituzione e all’interno della repubblica una e indivisibile con l’autogoverno.
L’autogoverno si differenzia dall’autonomia perché oltre alla sfera dell’amministrazione e della gestione ha competenza primaria, possibilmente esclusiva, sul processo legislativo e impositivo. E’ con la possibilità concreta di questi ultimi due elementi che permettono di avere le “risorse” economico-finanziarie che si sostanzia l’autogoverno, altrimenti si torna all’ambito più limitato dell’autonomia e del decentramento amministrativo.
Autonomia e decentramento amministrativo che, nella migliore delle ipotesi, hanno caratterizzato questi 75 anni di autonomia speciale della Sardegna con i risultati che conosciamo.
Periferie urbane, periferie territoriali
Il grande architetto Renzo Piano continua a portare avanti l’esigenza di “ricucire” le periferie.
Se ricucire è necessario, sicuramente non può essere ritenuto sufficiente.
Le periferie vanno riportate al centro dell’attività politica, economica e sociale.
Le periferie, sia quelle urbane che quelle territoriali che caratterizzano le nostre società, non dovrebbero proprio esserci se vogliamo tendere a realizzare quel principio di uguaglianza tra gli uomini e tra tutti i luoghi del vivere dove poter godere dei diritti di cittadinanza.
Le periferie assomigliano sempre di più a luoghi di esclusione e di confinamento sociale. Sono fonte di differenze e discriminazioni così forti e sentite che, nei contesti fortemente urbanizzati, sfociano sempre e comunque nella rabbia e nel conflitto sociale.
La stessa considerazione vale per le periferie territoriali che, per quanto riguarda la nostra isola, abbondano e possono ricomprendere quelle decine e decine di piccoli comuni ad oggi privi di qualunque tipo di servizi come scuole, medico di base, trasporti adeguati, luoghi di incontro sociale e servizi vari che possano permettere alla cittadinanza di continuare ad abitare e vivere i luoghi.
E per quanto riguarda le periferie territoriali, nessun territorio della nostra repubblica è periferia quanto la Sardegna, sempre più isola delle disuguaglianze, con decine di paesi senza servizi sanitari di base e senza scuole degne di questo nome, con trasporti interni inesistenti, sfruttata come una colonia italiana delle servitù militari e della produzione e sperimentazioni di bombe e armamenti per conto dell’intera NATO, con un popolo Sardo a cui è stata compressa e negata l’identità con l’obiettivo politico di impedirne la consapevolezza di essere Nazione.
Su questo punto intendo tornare in seguito, dopo aver tratteggiato alcune aspetti di base sui contenuti di interesse da approfondire collettivamente in sede di dibattito pubblico.
Le sei materie di interesse sono individuate nell’art 117 della Costituzione tra quelle di competenza regionale (urbanistica), statale (ambiente) e concorrente (le altre).
A mio avviso ci sono le condizioni per una riscrittura dello Statuto speciale che, tra gli altri punti fondamentali da rivedere per ridefinirne l’impianto, almeno sulle materie elencate consenta di individuare reali percorsi di autogoverno o, per alcuni studiosi e protagonisti della storia politica culturale della Sardegna, percorsi di “autonomia integrale” del popolo sardo.
Su tale questione assume particolare rilevanza il punto di vista dei costituzionalisti e giuristi che affronteranno il tema.
Ogni processo di cambiamento ha bisogno di concretezza e per questo riteniamo che un approccio integrato alle sei materie dai cinque punti di vista indicati permetterà di individuare proposte realistiche, indicando anche le risorse economiche e finanziari per la loro realizzazione, immediatamente percorribili dalle istituzioni elettive e da tutti i luoghi decisionali preposti alla guida della Sardegna.
Le sei materie tra regionalismo e ricentralizzazione
Per l’energia auspichiamo una Sardegna totalmente rinnovabile con un sistema energetico largamente distribuito costituito da una numerosità di impianti tale da soddisfare ogni bisogno energetico della regione.
Ci sono tutte le condizioni perché in Sardegna si intraprenda tale strada: con l’autogoverno si può evitare l’assalto al sole e al vento della nostra terra da parte delle multinazionali e delle imprese nazionali che non lasciano alcuna forma di ricchezza sui nostri territori.
Lo Statuto ci riserva sulla produzione e distribuzione dell’energia delle competenze private che vanno esercitate: si può e si deve farlo.
Tali competenze vanno utilizzate per sottrarre ad Enel, oggi società privata quotata in borsa con lo Stato azionista con poco più del 23%, la gestione di tutte le centrali idroelettriche che producono energia con l’acqua appartenente al demanio regionale.
Quindi non solo energia dal sole e dal vento, ma anche dall’acqua e perché no, anche dalla geotermia ancorché a bassa temperatura, così come dal moto ondoso.
Sull’energia come sulle altre materie chiediamoci quale Quale evoluzione ha avuto il diritto regionale?
Si può rispondere che negli ultimi tre decenni del secolo scorso il diritto regionale ha avuto un notevole sviluppo.
Si è fatto un significativo passo avanti con l’art. 114 e con la giurisdizione sul regionalismo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ma se si guarda al contenzioso tra Regioni/Stato sulle tante materie di intervento governativo in questi decenni a partire dall’energia (concorrente) e finire con l’urbanistica (solo regionale), l’intervento del legislatore statale, poi prontamente ratificato dalla Corte (le eccezioni non fanno la regola) è sempre stato quello di un ridimensionamento del diritto regionale. Questo ha comportato il venir meno dell’ispirazione di fondo della Carta basata sulle autonomie locali e specificatamente sulle regioni, in analogia con la costituzione spagnola, unico altro modello simile in Europa.
Per esempio il diritto regionale sull’urbanistica, che è materia esclusivamente regionale, è comunque compresso e limitato anche con maglie estremamente strette perché tocca aspetti del Governo del territorio (concorrente), dell’Ambiente (Stato), del Paesaggio (la tutela è dello Stato, la fruizione e gestione pur regionali sono concorrenti di fatto), i Trasporti (concorrente), ecc.
E quando si parla di urbanistica dobbiamo ripensarla totalmente mettendo al centro “le periferie” che devono avere la stessa cura e attenzione di ogni parte della/e città.
La stessa “cura e attenzione” che ci devono permettere, per estensione, di avere una programmazione qualitativamente uniforme di servizi e opportunità in ogni parte e luogo della Sardegna, intesa come insieme di luoghi urbanizzati e campagne.
Riparlare di servitù militari in una prospettiva di autogoverno prevedendone una progressiva dismissione vuol dire mettere mano alla vasta tematica del Governo del territorio che a sua volta incide e si interseca con l’Urbanistica.
E il Governo del Territorio non può essere scisso dai Trasporti, verso l’esterno dell’isola e verso le aree interne, che non devono essere concepiti solo in termini di profitto, ma di equilibrio economico e sociale. E quando si parla di Trasporti caratterizzati da un equilibrio di tipo sociale bisogna comprendere e accettare che lo si garantisce anche con alcune “linee” in perdita.
In quanto guidati dalle tre “d” e con l’aspirazione a rovesciare il paradigma centro-periferia, i territori e i vari luoghi in cui si estrinseca la vita e le attività umane vanno ripensati con tutti i servizi connessi, come “entità cooperanti” e non come “entità concorrenti”.
Al riguardo si sottolinea che il pensiero delle entità concorrenti è quello insito nel liberismo che ha portato all’aziendalizzazione esasperata della sanità nazionale che a 45 anni dalla nascita del SSN di tipo universale è oggi sempre più caratterizzato dalla privatizzazione e dalla subordinazione ideologica, economica e culturale al privato.
E da qui si torna immancabilmente ai Livelli Uniformi delle Prestazioni che devono essere garantiti dallo Stato laddove la competenza sia dello Stato, come è auspicabile che sia per la Sanità e l’Istruzione, in contrapposizione ai LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni, che non fanno altro che aumentare le disuguaglianze territoriali e tra i cittadini.
L’uniformità delle prestazioni dei servizi, di tutti i servizi a garanzia dei diritti di cittadinanza, ci viene dalla nostra Costituzione e su questo bisogna far leva in tutte le nostre azioni politiche.
Sardegna, per un nuovo Statuto speciale Idee, progetti e possibili processi di autogoverno (di Fernando Codonesu)
Ragionare su un nuovo statuto speciale della Sardegna con un preciso orientamento verso l’autogoverno può sembrare oggi un passo temerario, al limite del velleitarismo insensato per alcuni, tanto più se si considera la profonda crisi economico sociale che vive la Sardegna da almeno tre decenni.
Abbiamo qualche numero tragicamente importante come il record nazionale (forse europeo) della più bassa natalità e una diminuzione netta di circa 100.000 residenti negli ultimi 20 anni, nonostante gli apporti netti in termini di immigrati residenti.
E va considerato che i nostri emigrati sono quasi sempre giovani altamente formati, laureati o diplomati, e quelli che non lo sono appartengono comunque a quella fascia di età costituita da lavoratori intraprendenti, costretti a trovare altrove il luogo in cui lavorare e poter vivere serenamente.
Un’isola, dunque, per certi versi sempre più vecchia, demoralizzata e rassegnata, governata malissimo specie in quest’ultima tornata del centrodestra che pare non finisca mai, soprattutto alla luce del malfermo tavolo del centrosinistra attivo dal sette luglio dell’anno corrente.
Eppure, nonostante questa situazione tutt’altro che favorevole, ragionare sull’autogoverno si deve e si può, innanzitutto ripensando e riscrivendo il nostro statuto di autonomia speciale.
Sono convinto della necessità improcrastinabile di affrontare da cinque punti di vista quella che continua ad essere nota come la “questione sarda” all’interno del rapporto centro-periferia (che riguarda ampie parti della stessa Europa), analizzato ampiamente da diverse angolazioni a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso.
Le contraddizioni insite nel rapporto centro-periferia, in Sardegna ha portato alla creazione di nuovi movimenti politici a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, caratterizzati da obiettivi e parole d’ordine espressione di prospettive autonomiste, sovraniste e indipendentiste. Negli anni vi è stato il rafforzamento di partiti espressione del sardismo e della cultura del popolo sardo (ora decisamente declinanti), così come un rinnovato interesse per le tematiche legate alla sardità anche all’interno dei partiti politici nazionali presenti in Sardegna.
Quando si parla del rapporto centro – periferia si assume come metodo di analisi l’insieme simultaneo delle discriminanti parametriche conosciute come le tre “d”, distanza dal centro, ovvero dai luoghi decisionali del potere, in primis, per quanto ci riguarda, da Roma e da Bruxelles; differenza per cui è opportuno chiedersi se ci sono caratteristiche specifiche di questo popolo periferico, come quelle di tipo etnico-culturale, storiche, linguistiche, antropologiche, identitarie, di popolo come nazione ancorché senza Stato, ecc.; dipendenza, ovvero quanto si dipende oggi dal centro oppure se c’è un’interconnessione economica e sociale oramai così stretta tra la Sardegna-periferia e il centro, ragione per cui sarebbe antistorico porre questo problema.
In effetti a me pare che nel rapporto Sardegna/Italia continuino a perdurare tutti gli elementi di reale distanza, differenza e dipendenza tra centro e periferia che nel 1948 portarono all’approvazione dello statuto di autonomia speciale e che, per certi versi, tali parametri si siano aggravati negli ultimi decenni.
Da qui nasce l’esigenza di riscrivere il nostro statuto speciale in modo che vi siano contenuti gli insegnamenti ideali e le relative prospettive programmatiche che vengono da protagonisti della nostra storia politica e culturale come Angioy, Tuveri, Asproni, Gramsci, Bellieni, Lussu, Simon Mossa, Melis, nonché dai movimenti politici popolari, identitari, etno-culturali, sovranisti e indipendentisti attivi in Sardegna dagli anni ’70 del secolo scorso ai giorni nostri.
Il tema fondamentale della riscrittura dello Statuto e le sei materie su indicate a mio avviso dovrebbero essere affrontate dai seguenti cinque punti di vista: politico, tecnico-scientifico, economico-occupazionale e finanziario, fiscale e tributario, giuridico-costituzionale.
Fermo restando che la scrittura dello Statuto può essere fatta nella cornice dei vincoli derivanti dalla Costituzione e dallo Statuto vigenti e che tale compito istituzionale spetta al Consiglio Regionale nelle forme politiche e organizzative che riterrà opportune, il quinto punto di vista dovrebbe entrare nel merito di quale statuto, con quali modalità operative e quali tempistiche in base alla Costituzione e allo Statuto vigenti, ivi comprese le norme attuative, delineandone possibili soluzioni percorribili.
Per questa necessità di un approccio multilaterale a temi così rilevanti c’è bisogno di più voci e per questo, come Scuola di cultura politica Francesco Cocco, stiamo lavorando ad un convegno su questi temi che riunisca protagonisti provenienti da mondi diversi della politica, dell’economia, della ricerca e delle professioni e della società civile impegnata sui temi della cittadinanza.
Che le sei materie Energia, Governo del territorio, Urbanistica, Ambiente, Paesaggio e Trasporti siano totalmente interdipendenti tra loro è un fatto e non un’opinione.
Per quanto mi riguarda, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e dei singoli individui, riconosciuto dagli organismi internazionali, è il faro che deve guidare l’azione politica di tutti, a qualunque latitudine. Da qui partono alcune delle riflessioni che intendo sviluppare, ancorché sinteticamente, in questo intervento.
Il diritto all’autodeterminazione delle autonomie locali si realizza nel rispetto della Costituzione e all’interno della repubblica una e indivisibile con l’autogoverno.
L’autogoverno si differenzia dall’autonomia perché oltre alla sfera dell’amministrazione e della gestione ha competenza primaria, possibilmente esclusiva, sul processo legislativo e impositivo. E’ con la possibilità concreta di questi ultimi due elementi che permettono di avere le “risorse” economico-finanziarie che si sostanzia l’autogoverno, altrimenti si torna all’ambito più limitato dell’autonomia e del decentramento amministrativo.
Autonomia e decentramento amministrativo che, nella migliore delle ipotesi, hanno caratterizzato questi 75 anni di autonomia speciale della Sardegna con i risultati che conosciamo.
Periferie urbane, periferie territoriali
Il grande architetto Renzo Piano continua a portare avanti l’esigenza di “ricucire” le periferie.
Se ricucire è necessario, sicuramente non può essere ritenuto sufficiente.
Le periferie vanno riportate al centro dell’attività politica, economica e sociale.
Le periferie, sia quelle urbane che quelle territoriali che caratterizzano le nostre società, non dovrebbero proprio esserci se vogliamo tendere a realizzare quel principio di uguaglianza tra gli uomini e tra tutti i luoghi del vivere dove poter godere dei diritti di cittadinanza.
Le periferie assomigliano sempre di più a luoghi di esclusione e di confinamento sociale. Sono fonte di differenze e discriminazioni così forti e sentite che, nei contesti fortemente urbanizzati, sfociano sempre e comunque nella rabbia e nel conflitto sociale.
La stessa considerazione vale per le periferie territoriali che, per quanto riguarda la nostra isola, abbondano e possono ricomprendere quelle decine e decine di piccoli comuni ad oggi privi di qualunque tipo di servizi come scuole, medico di base, trasporti adeguati, luoghi di incontro sociale e servizi vari che possano permettere alla cittadinanza di continuare ad abitare e vivere i luoghi.
E per quanto riguarda le periferie territoriali, nessun territorio della nostra repubblica è periferia quanto la Sardegna, sempre più isola delle disuguaglianze, con decine di paesi senza servizi sanitari di base e senza scuole degne di questo nome, con trasporti interni inesistenti, sfruttata come una colonia italiana delle servitù militari e della produzione e sperimentazioni di bombe e armamenti per conto dell’intera NATO, con un popolo Sardo a cui è stata compressa e negata l’identità con l’obiettivo politico di impedirne la consapevolezza di essere Nazione.
Su questo punto intendo tornare in seguito, dopo aver tratteggiato alcune aspetti di base sui contenuti di interesse da approfondire collettivamente in sede di dibattito pubblico.
Le sei materie di interesse sono individuate nell’art 117 della Costituzione tra quelle di competenza regionale (urbanistica), statale (ambiente) e concorrente (le altre).
A mio avviso ci sono le condizioni per una riscrittura dello Statuto speciale che, tra gli altri punti fondamentali da rivedere per ridefinirne l’impianto, almeno sulle materie elencate consenta di individuare reali percorsi di autogoverno o, per alcuni studiosi e protagonisti della storia politica culturale della Sardegna, percorsi di “autonomia integrale” del popolo sardo.
Su tale questione assume particolare rilevanza il punto di vista dei costituzionalisti e giuristi che affronteranno il tema.
Ogni processo di cambiamento ha bisogno di concretezza e per questo riteniamo che un approccio integrato alle sei materie dai cinque punti di vista indicati permetterà di individuare proposte realistiche, indicando anche le risorse economiche e finanziari per la loro realizzazione, immediatamente percorribili dalle istituzioni elettive e da tutti i luoghi decisionali preposti alla guida della Sardegna.
Le sei materie tra regionalismo e ricentralizzazione
Per l’energia auspichiamo una Sardegna totalmente rinnovabile con un sistema energetico largamente distribuito costituito da una numerosità di impianti tale da soddisfare ogni bisogno energetico della regione.
Ci sono tutte le condizioni perché in Sardegna si intraprenda tale strada: con l’autogoverno si può evitare l’assalto al sole e al vento della nostra terra da parte delle multinazionali e delle imprese nazionali che non lasciano alcuna forma di ricchezza sui nostri territori.
Lo Statuto ci riserva sulla produzione e distribuzione dell’energia delle competenze private che vanno esercitate: si può e si deve farlo.
Tali competenze vanno utilizzate per sottrarre ad Enel, oggi società privata quotata in borsa con lo Stato azionista con poco più del 23%, la gestione di tutte le centrali idroelettriche che producono energia con l’acqua appartenente al demanio regionale.
Quindi non solo energia dal sole e dal vento, ma anche dall’acqua e perché no, anche dalla geotermia ancorché a bassa temperatura, così come dal moto ondoso.
Sull’energia come sulle altre materie chiediamoci quale Quale evoluzione ha avuto il diritto regionale?
Si può rispondere che negli ultimi tre decenni del secolo scorso il diritto regionale ha avuto un notevole sviluppo.
Si è fatto un significativo passo avanti con l’art. 114 e con la giurisdizione sul regionalismo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ma se si guarda al contenzioso tra Regioni/Stato sulle tante materie di intervento governativo in questi decenni a partire dall’energia (concorrente) e finire con l’urbanistica (solo regionale), l’intervento del legislatore statale, poi prontamente ratificato dalla Corte (le eccezioni non fanno la regola) è sempre stato quello di un ridimensionamento del diritto regionale. Questo ha comportato il venir meno dell’ispirazione di fondo della Carta basata sulle autonomie locali e specificatamente sulle regioni, in analogia con la costituzione spagnola, unico altro modello simile in Europa.
Per esempio il diritto regionale sull’urbanistica, che è materia esclusivamente regionale, è comunque compresso e limitato anche con maglie estremamente strette perché tocca aspetti del Governo del territorio (concorrente), dell’Ambiente (Stato), del Paesaggio (la tutela è dello Stato, la fruizione e gestione pur regionali sono concorrenti di fatto), i Trasporti (concorrente), ecc.
E quando si parla di urbanistica dobbiamo ripensarla totalmente mettendo al centro “le periferie” che devono avere la stessa cura e attenzione di ogni parte della/e città.
La stessa “cura e attenzione” che ci devono permettere, per estensione, di avere una programmazione qualitativamente uniforme di servizi e opportunità in ogni parte e luogo della Sardegna, intesa come insieme di luoghi urbanizzati e campagne.
Riparlare di servitù militari in una prospettiva di autogoverno prevedendone una progressiva dismissione vuol dire mettere mano alla vasta tematica del Governo del territorio che a sua volta incide e si interseca con l’Urbanistica.
E il Governo del Territorio non può essere scisso dai Trasporti, verso l’esterno dell’isola e verso le aree interne, che non devono essere concepiti solo in termini di profitto, ma di equilibrio economico e sociale. E quando si parla di Trasporti caratterizzati da un equilibrio di tipo sociale bisogna comprendere e accettare che lo si garantisce anche con alcune “linee” in perdita.
In quanto guidati dalle tre “d” e con l’aspirazione a rovesciare il paradigma centro-periferia, i territori e i vari luoghi in cui si estrinseca la vita e le attività umane vanno ripensati con tutti i servizi connessi, come “entità cooperanti” e non come “entità concorrenti”.
Al riguardo si sottolinea che il pensiero delle entità concorrenti è quello insito nel liberismo che ha portato all’aziendalizzazione esasperata della sanità nazionale che a 45 anni dalla nascita del SSN di tipo universale è oggi sempre più caratterizzato dalla privatizzazione e dalla subordinazione ideologica, economica e culturale al privato.
E da qui si torna immancabilmente ai Livelli Uniformi delle Prestazioni che devono essere garantiti dallo Stato laddove la competenza sia dello Stato, come è auspicabile che sia per la Sanità e l’Istruzione, in contrapposizione ai LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni, che non fanno altro che aumentare le disuguaglianze territoriali e tra i cittadini.
L’uniformità delle prestazioni dei servizi, di tutti i servizi a garanzia dei diritti di cittadinanza, ci viene dalla nostra Costituzione e su questo bisogna far leva in tutte le nostre azioni politiche.
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Redazione Scuola