In vista dell’incontro del 24 prossimo ad iniziativa della Scuola di cultura politica Francesco Cocco contro la proposta Calderoli, pare utile una riflessione sul NO all’autonomia differenziata e sull’alternativa, apparentemente contraddittoria, di una maggiore autonomia delle comunità locali sul modello federalisita. In Sardegna si tratta di rievocare e attualizzare l’idea dell’autogoverno avanzata da tutti i grandi democratici sardi del passato, da Angioy a Tuveri e Asproni, da Gramsci a Lussu.
Se guardiamo alla pretesa delle regioni più ricche del nord di imporre nel nostro ordinamento un’autonomia differenziata, ci rendiamo conto che questa proposta riavvanza l’idea dello sviluppo duale del nostro paese a trazione settentrionale. Lo schema che fu imposto subito dopo l’unità d’Italia e, ancor prima, nel Regno di Sardegna con la c.d. fusione perfetta, ossia con la soppressione dell’antico Stato isolano a favore del comando piemontese. Si cancella così d’un tratto tutta la riflessione e la elaborazione sulla questione meridionale e la sforzo di dare al paese uno sviluppo equilibrato, di superare la subalternità del Sud.
Ed oggi non si vede via d’uscita. La storia di oggi è la storia del popolo sardo o quella della Sardegna, ossia di chi nell’isola governa in nome d’altri, al seguito e sotto il comando di gruppi politici ed economico-finanziari nazionali e internazionali? Non esistono più organizzazioni socialiste, né cattoliche, né sardiste. Non esistono veri partiti. Sono tornate – come al tempo di G. B. Tuveri – le consorterie attorno a un notabiliato politico, che usa gli slogan per conquistare voti ma che, sostanzialmente, non ha progetti o visioni generali. E sono immancabilmente tornate le caste instancabilmente combattute dall’uomo di Collinas.
In questo mutato contesto politico, dopo mezzo secolo, bisogna ammetterlo: il sistema delle Regioni ha introdotto fattori di frantumazione dell’unità nazionale e ha scombinato le finanze del nostro Paese. Alla prova della pandemia, cioè di un accadimento eccezionale, l’assetto politico, istituzionale e amministrativo italiano non è apparso capace di rispondere alle esigenze unitarie del Paese e ancor meno a quelle locali. Molte Regioni hanno mostrato un volto anarco/feudale, frutto di un’ambiguità costituzionale, che la riforma del Titolo V ha ulteriormente aggravato, talché l’ampliamento del perimetro della legislazione concorrente, anziché essere veicolo di maggiore partecipazione alle decisioni interne e nazionali, è divenuto fattore di disgregazione. La Conferenza Stato-Regioni, fuori da ogni controllo del Parlamento, è incapace di stimolare la soluzione pattizia e politica dei problemi, per la liquefazione dei partiti. Ne esce sconfitto non solo il federalismo di Lussu (espunto pregiudizialmente dal testo costituzionale), ma anche il quadro concettuale e programmatico dei comunisti italiani che, a partire dall’idea della “democrazia progressiva”, concepiva la Costituzione come la summa delle aspirazioni emerse dalla lotta di liberazione, un programma organico ed essenziale per l’avanzamento sociale e politico delle masse popolari nell’Italia democratica. E risultano deluse anche le aspettative della DC e dei cattolici progressisti che, dalla riforma regionale, si aspettavano un cambiamento profondo. Questo è, nell’attuale contesto politico-sociale, il risultato, per molti versi, imprevisto del testo licenziato dall’Assemblea costituente e della sua revisione del 2001.
Ne è uscito un regionalismo confuso: non è federalista, tale da imputare alla Regione precise responsabilità fiscali e di spesa. Le linee di spesa non hanno criteri, se non quello della “spesa storica”, costruita lungo i decenni per rapporti di forza e di favore politico-partitici. È venuta meno l’idea dell’unità della finanza pubblica e ogni regione fa scorribande irresponsabili sulle risorse, tanto alla fine paga lo Stato.
Che fare? Intanto, battersi subito senza riserve contro l’autonomia differenziata di Calderoli. Ma non limitarci alla difesa. Verrebbe da dire che, per la Sardegna, occorrerebbe tornare a Lussu, a Gramsci e sù sù, a Giommaria, a un’ipotesi federalista da calibrare col mutato quadro nazionale ed europeo. E sia ben chiaro federalismo non significa confusione e frammentazione. Al contrario, accanto a funzioni unitarie allocate nello Stato (difesa, magistratura, scuola, sanità ecc.), prevedere funzioni locali da assegnare in modo esclusivo alle regioni. Ci sono grandi ordinamenti che s’ispirano a questo schema e funzionano bene e con molta efficienza. Vale la pena dunque, mentre rigettiamo l’autonomia differenziata, perseguire una riflessione che consenta di assicurare maggiore unità dello Stato e più forte autonomia delle comunità locali.
Si può battere l’autonomia differenziata in una prospettiva federalista? (di Andrea Pubusa da democraziaoggi.it)
In vista dell’incontro del 24 prossimo ad iniziativa della Scuola di cultura politica Francesco Cocco contro la proposta Calderoli, pare utile una riflessione sul NO all’autonomia differenziata e sull’alternativa, apparentemente contraddittoria, di una maggiore autonomia delle comunità locali sul modello federalisita. In Sardegna si tratta di rievocare e attualizzare l’idea dell’autogoverno avanzata da tutti i grandi democratici sardi del passato, da Angioy a Tuveri e Asproni, da Gramsci a Lussu.
Se guardiamo alla pretesa delle regioni più ricche del nord di imporre nel nostro ordinamento un’autonomia differenziata, ci rendiamo conto che questa proposta riavvanza l’idea dello sviluppo duale del nostro paese a trazione settentrionale. Lo schema che fu imposto subito dopo l’unità d’Italia e, ancor prima, nel Regno di Sardegna con la c.d. fusione perfetta, ossia con la soppressione dell’antico Stato isolano a favore del comando piemontese. Si cancella così d’un tratto tutta la riflessione e la elaborazione sulla questione meridionale e la sforzo di dare al paese uno sviluppo equilibrato, di superare la subalternità del Sud.
Ed oggi non si vede via d’uscita. La storia di oggi è la storia del popolo sardo o quella della Sardegna, ossia di chi nell’isola governa in nome d’altri, al seguito e sotto il comando di gruppi politici ed economico-finanziari nazionali e internazionali? Non esistono più organizzazioni socialiste, né cattoliche, né sardiste. Non esistono veri partiti. Sono tornate – come al tempo di G. B. Tuveri – le consorterie attorno a un notabiliato politico, che usa gli slogan per conquistare voti ma che, sostanzialmente, non ha progetti o visioni generali. E sono immancabilmente tornate le caste instancabilmente combattute dall’uomo di Collinas.
In questo mutato contesto politico, dopo mezzo secolo, bisogna ammetterlo: il sistema delle Regioni ha introdotto fattori di frantumazione dell’unità nazionale e ha scombinato le finanze del nostro Paese. Alla prova della pandemia, cioè di un accadimento eccezionale, l’assetto politico, istituzionale e amministrativo italiano non è apparso capace di rispondere alle esigenze unitarie del Paese e ancor meno a quelle locali. Molte Regioni hanno mostrato un volto anarco/feudale, frutto di un’ambiguità costituzionale, che la riforma del Titolo V ha ulteriormente aggravato, talché l’ampliamento del perimetro della legislazione concorrente, anziché essere veicolo di maggiore partecipazione alle decisioni interne e nazionali, è divenuto fattore di disgregazione. La Conferenza Stato-Regioni, fuori da ogni controllo del Parlamento, è incapace di stimolare la soluzione pattizia e politica dei problemi, per la liquefazione dei partiti. Ne esce sconfitto non solo il federalismo di Lussu (espunto pregiudizialmente dal testo costituzionale), ma anche il quadro concettuale e programmatico dei comunisti italiani che, a partire dall’idea della “democrazia progressiva”, concepiva la Costituzione come la summa delle aspirazioni emerse dalla lotta di liberazione, un programma organico ed essenziale per l’avanzamento sociale e politico delle masse popolari nell’Italia democratica. E risultano deluse anche le aspettative della DC e dei cattolici progressisti che, dalla riforma regionale, si aspettavano un cambiamento profondo. Questo è, nell’attuale contesto politico-sociale, il risultato, per molti versi, imprevisto del testo licenziato dall’Assemblea costituente e della sua revisione del 2001.
Ne è uscito un regionalismo confuso: non è federalista, tale da imputare alla Regione precise responsabilità fiscali e di spesa. Le linee di spesa non hanno criteri, se non quello della “spesa storica”, costruita lungo i decenni per rapporti di forza e di favore politico-partitici. È venuta meno l’idea dell’unità della finanza pubblica e ogni regione fa scorribande irresponsabili sulle risorse, tanto alla fine paga lo Stato.
Che fare? Intanto, battersi subito senza riserve contro l’autonomia differenziata di Calderoli. Ma non limitarci alla difesa. Verrebbe da dire che, per la Sardegna, occorrerebbe tornare a Lussu, a Gramsci e sù sù, a Giommaria, a un’ipotesi federalista da calibrare col mutato quadro nazionale ed europeo. E sia ben chiaro federalismo non significa confusione e frammentazione. Al contrario, accanto a funzioni unitarie allocate nello Stato (difesa, magistratura, scuola, sanità ecc.), prevedere funzioni locali da assegnare in modo esclusivo alle regioni. Ci sono grandi ordinamenti che s’ispirano a questo schema e funzionano bene e con molta efficienza. Vale la pena dunque, mentre rigettiamo l’autonomia differenziata, perseguire una riflessione che consenta di assicurare maggiore unità dello Stato e più forte autonomia delle comunità locali.
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Redazione Scuola