Violenza contro le donne, crimine contro l’umanità
Di Roberto Paracchini
“Siamo nascoste in cantina, siamo sole, abbiamo paura. Vi prego portateci via”, supplica nascosta in una abitazione di Kabul assieme alla sorella una ragazza di 24 anni, sperando di non essere trovata dai talebani. La loro colpa “infamante” è quella di avere studiato e di lavorare per una ONG, addirittura. La testimonianza è riportata da Barbara Schiavulli su la Repubblica. Come loro, migliaia e migliaia di donne afgane chiedono la stessa cosa. La cronaca è tragica.
Poco meno di vent’anni fa, il 7 ottobre del 2001 “l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei” sull’Afghanistan, raccontava Gino Strada (il fondatore di Emergency recentemente scomparso) nel suo ultimo articolo-testamento pubblicato su La Stampa. Nella sua lunga attività di medico per la pace e la salvezza delle persone, Strada era stato in Afghanistan per sette anni. “Ufficialmente l’Afghanistan – continuava Strada – veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla ‘guerra santa’ anti-Usa di Osama Bin Laden. Così la ‘guerra al terrorismo’ diventava di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996”.
“A Kabul il nostro mondo esportato a forza, provvisorio, tarlato, è crollato in poche ore”, scrive Domenico Quirico su La Stampa.
All’aeroporto di Kabul migliaia di persone cercano di fuggire aggrappandosi anche ai carrelli degli aerei. Le donne che restano cercano di nascondersi. Lo studio, il lavoro, una semplice passeggiata, una canzone, una carezza, un sorriso diventeranno, da oggi in poi, peccati gravi puniti duramente; e chi avrà l’ardire di smaltarsi le unghie delle mani, rischia il taglio delle dita, se poi non ossequierà il maschio di casa sarà frustata, mentre se avrà il calore di un corpo maschile estraneo alla sua famiglia, ma anche il dramma di essere violentata, sarà lapidata in pubblica piazza.
Dal settembre del 1996, spiegava Strada, “per almeno due anni gli Stati Uniti avevano ‘trattato’ per trovare un accordo coi talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale sino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzi tutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire del 1994”.
Tanti gli errori dell’occidente (Usa in testa ed Europa a seguito), come “la bizzarra scelta degli Stati Uniti di elevare una tecnica, il terrorismo, a soggetto nemico – afferma Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes – o l’altrettanta curiosa decisione di vendicare l’attacco saudita-pakistano alle Torri Gemelle invadendo l’Afghanistan”. Ed è anche incomprensibile la miopia nel non vedere come i talebani, prima di essere dei miliziani islamici, sono tra i principali narcotrafficanti mondiali, come sottolinea Roberto Saviano sul Corriere della Sera. Secondo l’Unodc, l’ufficio droghe e crimini dell’Onu, oltre il 90 per cento dell’eroina mondiale è prodotta in Afghanistan. Ammesso e non concesso che la lotta al terrorismo fosse la principale motivazione che ha portato gli Usa ad invadere l’Afghanistan, “Il più grande fallimento nella guerra al terrorismo non è che Al Qaida si stia riorganizzando nelle aree tribali dell’Afghanistan e probabilmente pianifichi nuovi attacchi all’occidente – precisa la reporter Gretchen Peters nel suo libro Seeds of Terror (I semi del terrore), citata anche da Saviano – piuttosto, è la spettacolare incapacità delle forze dell’ordine occidentali di interrompere il flusso di denaro che tiene a galla le loro reti”. Il Mullah Akhundzada, ad esempio, “oggi indicato come il maggior leader talebano è uno dei trafficanti più importanti al mondo”, sottolinea Saviano, attentissimo studioso delle dinamiche del traffico internazionale di droga.
La paura, intanto, continua a regnare sovrana a Kabul nonostante la conferenza stampa dei talebani che promettono “niente vendette” e, senza alcun senso del ridicolo e della vergogna, parlano di una sorta di libertà “condizionata” per le donne, come se i diritti alla persona potessero essere negoziabili. Da un lato, quindi, l’incapacità dell’Occidente, di modulare un approccio all’Afghanistan che vada oltre “le velleità da ‘missione civilizzatrice’ classiche – precisa Caracciolo – dei colonialismi europei (…) sopravvissute alla loro fine”; dall’altro l’impotenza e il nichilismo interiore dimostrato in questi giorni dallo stesso Occidente, che rende indissolubilmente vero quanto ricorda Quirico mentre riflette sgomento sulla caduta di Kabul: “In un altro luogo del mondo dove perdiamo altre guerra, il Sahel, un vecchio con l’aria vigorosa e tranquilla di un menhir, a cui daresti dieci secoli, che ha la giovinezza e la serenità di una montagna, mi disse sospirando: voi occidentali non avete amici, avete solo interessi…”.
Interessi, quindi, e paraocchi generalizzati per impedire di vedere che l’Afghanistan dei talebani è, purtroppo, solo la punta dell’iceberg di un problema ancora più vasto: la violenza continua e impietosa verso quella che un vecchio signore cinese chiamava l’altra metà del cielo, le donne. Che cos’è se non violenza impedire, ad esempio, a una persona di uscire, se non accompagnata da un maschio della famiglia? Che cos’è se non violenza, imporre il burka? Che cos’è se non violenza vietare alle donne di andare a scuola o che ti guardino negli occhi; per non parlare delle punizioni corporali (frustate, amputazioni, ecc.)? Che cos’è, e sia detto chiaramente, se non schiavismo costringere una persona con la violenza a ruoli predefiniti e umilianti? Le donne rappresentano più della metà dell’umanità esistente sulla Terra. Allora che cos’è se non un crimine contro l’umanità sottomettere con violenza fisica e psicologica le donne?
I crimini contro l’umanità rientrano nella giurisdizione della CPI (Corte penale internazionale).
Lo Statuto della CPI qualifica come crimini contro l’umanità gli atti di seguito elencati, «quando commessi come parte di un attacco esteso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile, con la consapevolezza dell’attacco»: 1) l’omicidio volontario; 2) lo sterminio; 3) la riduzione in schiavitù; 4) la deportazione e il trasferimento forzato di popolazione; 5) la detenzione e ogni altra grave privazione della libertà personale in violazione del diritto internazionale; 6) la tortura; 7) lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; 8) la persecuzione per motivi politici, razziali, nazionali, etnici, culturali, religiosi, di genere o altri motivi non ammessi dal diritto internazionale; 9) la sparizione forzata di persone; l’apartheid; e altri atti inumani di carattere analogo comportanti grandi sofferenze o gravi lesioni fisiche o psichiche (articolo 7, paragrafo 1).
Nelle norme che i talebani impongono con la violenza alle donne si rilevano almeno cinque atti che rientrano nell’elenco sopra citato: nel punto 3 (riduzione in schiavitù), nel 5 (privazione della libertà personale in violazione del diritto internazionale), nel 6 (tortura: frustate e percosse per le donne che non vestono secondo le direttive dei talebani), nel 7 (stupro e schiavitù sessuale) e nell’8 (persecuzione per motivi di genere) e che, quindi, sono definibili come crimini contro l’umanità.
Questi comportamenti avvengono nonostante la Dichiarazione universale dei diritti umani abbia oltre settant’anni. Venne approvata e proclamata il 10 dicembre del 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite con 48 voti a favore, otto astenuti (Arabia Saudita, Jugoslavia, Cecoslovacchia allora nell’URSS, Polonia, Repubblica del Sud Africa, Ucraina allora nell’URSS, e Unione Sovietica) e due assenti. Il primo articolo dichiara – sempre istruttivo ripeterlo – che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. La prima parte del secondo articolo ribadisce che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. E il terzo elimina ogni dubbio possibile sull’universalità dei diritti ribadendo che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.
Ora proviamo a fare un esperimento mentale e immaginiamo che di quelle, prima riportate, cinque gravissime violazioni della dignità umana siano vittime gli uomini e non le donne. Non sarebbe forse già esploso un putiferio di indignazione? “Ma come l’uomo (il maschio) che guida e comanda, l’uomo qui e l’uomo là, sottoposto a simili infamie? Indecente, non è possibile, inconcepibile, imposizioni schifose”, ecc. ecc. Ma si tratta di un’infamia subita dalle donne… Quindi, sì, indignazione ma senza eccedere: “Siamo realisti, questa è la situazione, quindi bisogna dialogare, vediamo se si può ottenere qualcosa in più, in fin dei conti le donne due secoli fa erano quasi schiave anche in occidente, poi pian piano hanno ottenuto l’accesso all’istruzione e all’università, poi il diritto di voto, poi la possibilità di concorrere alle cariche pubbliche…; insomma vediamo le cose con gradualità, senza pretendere troppo in fretta, tutto subito…”. E via di seguito con simili (consapevoli o meno) ipocrite amenità come – lo si ripeta di nuovo – se i diritti alla persona fossero negoziabili e non acquisizioni universali valide immediatamente per tutti gli esseri umani. La realtà dei fatti è che il patriarcato è ancora molto forte in quasi tutte le culture, anche nel mondo occidentale come dimostrano, solo per fare pochi esempi, le continue violenze (dai femminicidi ai ricatti psicologici), le disparità salariali e prima ancora le tantissime difficoltà lavorative delle donne e la mancanza di sufficienti, e spesso assenti, servizi specifici come quelli di cura (anziani, infanzia, natalità ecc.).
Sì, va sottolineato con forza! Il patriarcato impregna ancora il senso comune di gran parte della popolazione e delle classi dirigenti in particolare vista la scarsa sensibilità e disponibilità verso le tematiche di genere.
I talebani in Afghanistan, si è detto, rappresentano la punta dell’iceberg che va affrontata subito, nel qui ed ora. Ed è anche per questo che, dai tragici eventi dell’oggi (culminati con la presa di Kabul), risulta ancora più inconcepibile che non si siano ancora dichiarati esplicitamente come crimini contro l’umanità le violenze e gli atti di sopruso perpetuati contro le donne.
Qualcuno potrà dire che sarebbero troppi i problemi da affrontare se si arrivasse a questa dichiarazione. E certamente ve ne sarebbero, così come è sempre capitato quando si sono portate avanti importanti battaglie di principio (da Rosa Parks a Nelson Mandela). Ma la situazione di violenza contro le donne è diventata vergognosamente insopportabile per ogni persona che voglia considerarsi, o almeno tentare di essere, appena appena civile. Come scrisse nel 1945 Stig Dagerman (il Camus della cultura svedese) “è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza – che rappresenta forse il dilemma di tutti i socialisti del giorno d’oggi – che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna”. Le battaglie di principio vanno sempre portate avanti. E in più, quella di cui si è parlato in queste brevi note, il dichiarare crimini contro l’umanità la violenza e l’oppressione contro le donne, può essere vinta dando finalmente uno scossone positivo a tutta l’umanità.
Violenza contro le donne e crimini contro l’umanità
Violenza contro le donne, crimine contro l’umanità
Di Roberto Paracchini
“Siamo nascoste in cantina, siamo sole, abbiamo paura. Vi prego portateci via”, supplica nascosta in una abitazione di Kabul assieme alla sorella una ragazza di 24 anni, sperando di non essere trovata dai talebani. La loro colpa “infamante” è quella di avere studiato e di lavorare per una ONG, addirittura. La testimonianza è riportata da Barbara Schiavulli su la Repubblica. Come loro, migliaia e migliaia di donne afgane chiedono la stessa cosa. La cronaca è tragica.
Poco meno di vent’anni fa, il 7 ottobre del 2001 “l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei” sull’Afghanistan, raccontava Gino Strada (il fondatore di Emergency recentemente scomparso) nel suo ultimo articolo-testamento pubblicato su La Stampa. Nella sua lunga attività di medico per la pace e la salvezza delle persone, Strada era stato in Afghanistan per sette anni. “Ufficialmente l’Afghanistan – continuava Strada – veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla ‘guerra santa’ anti-Usa di Osama Bin Laden. Così la ‘guerra al terrorismo’ diventava di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996”.
“A Kabul il nostro mondo esportato a forza, provvisorio, tarlato, è crollato in poche ore”, scrive Domenico Quirico su La Stampa.
All’aeroporto di Kabul migliaia di persone cercano di fuggire aggrappandosi anche ai carrelli degli aerei. Le donne che restano cercano di nascondersi. Lo studio, il lavoro, una semplice passeggiata, una canzone, una carezza, un sorriso diventeranno, da oggi in poi, peccati gravi puniti duramente; e chi avrà l’ardire di smaltarsi le unghie delle mani, rischia il taglio delle dita, se poi non ossequierà il maschio di casa sarà frustata, mentre se avrà il calore di un corpo maschile estraneo alla sua famiglia, ma anche il dramma di essere violentata, sarà lapidata in pubblica piazza.
Dal settembre del 1996, spiegava Strada, “per almeno due anni gli Stati Uniti avevano ‘trattato’ per trovare un accordo coi talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale sino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzi tutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire del 1994”.
Tanti gli errori dell’occidente (Usa in testa ed Europa a seguito), come “la bizzarra scelta degli Stati Uniti di elevare una tecnica, il terrorismo, a soggetto nemico – afferma Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes – o l’altrettanta curiosa decisione di vendicare l’attacco saudita-pakistano alle Torri Gemelle invadendo l’Afghanistan”. Ed è anche incomprensibile la miopia nel non vedere come i talebani, prima di essere dei miliziani islamici, sono tra i principali narcotrafficanti mondiali, come sottolinea Roberto Saviano sul Corriere della Sera. Secondo l’Unodc, l’ufficio droghe e crimini dell’Onu, oltre il 90 per cento dell’eroina mondiale è prodotta in Afghanistan. Ammesso e non concesso che la lotta al terrorismo fosse la principale motivazione che ha portato gli Usa ad invadere l’Afghanistan, “Il più grande fallimento nella guerra al terrorismo non è che Al Qaida si stia riorganizzando nelle aree tribali dell’Afghanistan e probabilmente pianifichi nuovi attacchi all’occidente – precisa la reporter Gretchen Peters nel suo libro Seeds of Terror (I semi del terrore), citata anche da Saviano – piuttosto, è la spettacolare incapacità delle forze dell’ordine occidentali di interrompere il flusso di denaro che tiene a galla le loro reti”. Il Mullah Akhundzada, ad esempio, “oggi indicato come il maggior leader talebano è uno dei trafficanti più importanti al mondo”, sottolinea Saviano, attentissimo studioso delle dinamiche del traffico internazionale di droga.
La paura, intanto, continua a regnare sovrana a Kabul nonostante la conferenza stampa dei talebani che promettono “niente vendette” e, senza alcun senso del ridicolo e della vergogna, parlano di una sorta di libertà “condizionata” per le donne, come se i diritti alla persona potessero essere negoziabili. Da un lato, quindi, l’incapacità dell’Occidente, di modulare un approccio all’Afghanistan che vada oltre “le velleità da ‘missione civilizzatrice’ classiche – precisa Caracciolo – dei colonialismi europei (…) sopravvissute alla loro fine”; dall’altro l’impotenza e il nichilismo interiore dimostrato in questi giorni dallo stesso Occidente, che rende indissolubilmente vero quanto ricorda Quirico mentre riflette sgomento sulla caduta di Kabul: “In un altro luogo del mondo dove perdiamo altre guerra, il Sahel, un vecchio con l’aria vigorosa e tranquilla di un menhir, a cui daresti dieci secoli, che ha la giovinezza e la serenità di una montagna, mi disse sospirando: voi occidentali non avete amici, avete solo interessi…”.
Interessi, quindi, e paraocchi generalizzati per impedire di vedere che l’Afghanistan dei talebani è, purtroppo, solo la punta dell’iceberg di un problema ancora più vasto: la violenza continua e impietosa verso quella che un vecchio signore cinese chiamava l’altra metà del cielo, le donne. Che cos’è se non violenza impedire, ad esempio, a una persona di uscire, se non accompagnata da un maschio della famiglia? Che cos’è se non violenza, imporre il burka? Che cos’è se non violenza vietare alle donne di andare a scuola o che ti guardino negli occhi; per non parlare delle punizioni corporali (frustate, amputazioni, ecc.)? Che cos’è, e sia detto chiaramente, se non schiavismo costringere una persona con la violenza a ruoli predefiniti e umilianti? Le donne rappresentano più della metà dell’umanità esistente sulla Terra. Allora che cos’è se non un crimine contro l’umanità sottomettere con violenza fisica e psicologica le donne?
I crimini contro l’umanità rientrano nella giurisdizione della CPI (Corte penale internazionale).
Lo Statuto della CPI qualifica come crimini contro l’umanità gli atti di seguito elencati, «quando commessi come parte di un attacco esteso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile, con la consapevolezza dell’attacco»: 1) l’omicidio volontario; 2) lo sterminio; 3) la riduzione in schiavitù; 4) la deportazione e il trasferimento forzato di popolazione; 5) la detenzione e ogni altra grave privazione della libertà personale in violazione del diritto internazionale; 6) la tortura; 7) lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; 8) la persecuzione per motivi politici, razziali, nazionali, etnici, culturali, religiosi, di genere o altri motivi non ammessi dal diritto internazionale; 9) la sparizione forzata di persone; l’apartheid; e altri atti inumani di carattere analogo comportanti grandi sofferenze o gravi lesioni fisiche o psichiche (articolo 7, paragrafo 1).
Nelle norme che i talebani impongono con la violenza alle donne si rilevano almeno cinque atti che rientrano nell’elenco sopra citato: nel punto 3 (riduzione in schiavitù), nel 5 (privazione della libertà personale in violazione del diritto internazionale), nel 6 (tortura: frustate e percosse per le donne che non vestono secondo le direttive dei talebani), nel 7 (stupro e schiavitù sessuale) e nell’8 (persecuzione per motivi di genere) e che, quindi, sono definibili come crimini contro l’umanità.
Questi comportamenti avvengono nonostante la Dichiarazione universale dei diritti umani abbia oltre settant’anni. Venne approvata e proclamata il 10 dicembre del 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite con 48 voti a favore, otto astenuti (Arabia Saudita, Jugoslavia, Cecoslovacchia allora nell’URSS, Polonia, Repubblica del Sud Africa, Ucraina allora nell’URSS, e Unione Sovietica) e due assenti. Il primo articolo dichiara – sempre istruttivo ripeterlo – che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. La prima parte del secondo articolo ribadisce che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. E il terzo elimina ogni dubbio possibile sull’universalità dei diritti ribadendo che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.
Ora proviamo a fare un esperimento mentale e immaginiamo che di quelle, prima riportate, cinque gravissime violazioni della dignità umana siano vittime gli uomini e non le donne. Non sarebbe forse già esploso un putiferio di indignazione? “Ma come l’uomo (il maschio) che guida e comanda, l’uomo qui e l’uomo là, sottoposto a simili infamie? Indecente, non è possibile, inconcepibile, imposizioni schifose”, ecc. ecc. Ma si tratta di un’infamia subita dalle donne… Quindi, sì, indignazione ma senza eccedere: “Siamo realisti, questa è la situazione, quindi bisogna dialogare, vediamo se si può ottenere qualcosa in più, in fin dei conti le donne due secoli fa erano quasi schiave anche in occidente, poi pian piano hanno ottenuto l’accesso all’istruzione e all’università, poi il diritto di voto, poi la possibilità di concorrere alle cariche pubbliche…; insomma vediamo le cose con gradualità, senza pretendere troppo in fretta, tutto subito…”. E via di seguito con simili (consapevoli o meno) ipocrite amenità come – lo si ripeta di nuovo – se i diritti alla persona fossero negoziabili e non acquisizioni universali valide immediatamente per tutti gli esseri umani. La realtà dei fatti è che il patriarcato è ancora molto forte in quasi tutte le culture, anche nel mondo occidentale come dimostrano, solo per fare pochi esempi, le continue violenze (dai femminicidi ai ricatti psicologici), le disparità salariali e prima ancora le tantissime difficoltà lavorative delle donne e la mancanza di sufficienti, e spesso assenti, servizi specifici come quelli di cura (anziani, infanzia, natalità ecc.).
Sì, va sottolineato con forza! Il patriarcato impregna ancora il senso comune di gran parte della popolazione e delle classi dirigenti in particolare vista la scarsa sensibilità e disponibilità verso le tematiche di genere.
I talebani in Afghanistan, si è detto, rappresentano la punta dell’iceberg che va affrontata subito, nel qui ed ora. Ed è anche per questo che, dai tragici eventi dell’oggi (culminati con la presa di Kabul), risulta ancora più inconcepibile che non si siano ancora dichiarati esplicitamente come crimini contro l’umanità le violenze e gli atti di sopruso perpetuati contro le donne.
Qualcuno potrà dire che sarebbero troppi i problemi da affrontare se si arrivasse a questa dichiarazione. E certamente ve ne sarebbero, così come è sempre capitato quando si sono portate avanti importanti battaglie di principio (da Rosa Parks a Nelson Mandela). Ma la situazione di violenza contro le donne è diventata vergognosamente insopportabile per ogni persona che voglia considerarsi, o almeno tentare di essere, appena appena civile. Come scrisse nel 1945 Stig Dagerman (il Camus della cultura svedese) “è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza – che rappresenta forse il dilemma di tutti i socialisti del giorno d’oggi – che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna”. Le battaglie di principio vanno sempre portate avanti. E in più, quella di cui si è parlato in queste brevi note, il dichiarare crimini contro l’umanità la violenza e l’oppressione contro le donne, può essere vinta dando finalmente uno scossone positivo a tutta l’umanità.
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