Le proteste in Iran a seguito della morte di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, hanno riacceso l’attenzione internazionale sulla Repubblica Islamica e sulla tutela dei diritti umani nel paese. Questa ondata di contestazioni, tuttavia, non è un’eccezione e si inserisce in un ben più ampio contesto. Il movimento iraniano che oggi scende in piazza contestando il regime fa infatti parte di una più ampia costellazione di proteste e rivendicazioni che il popolo iraniano ha più volte manifestato nel corso degli anni. Se, indubbiamente, le proteste scoppiate ormai quasi un mese fa dimostrano ogni giorno di più la loro portata grazie al loro carattere trasversale e transnazionale, la loro origine non è così recente come possa sembrare ma va ricercata nell’evoluzione parallela del regime iraniano e dei movimenti di protesta.
La Repubblica Islamica d’Iran: istituzioni, ideologia, politica
La Repubblica Islamica venne istituita mediante referendum il 1 aprile 1979 a seguito della realizzazione della rivoluzione che abbatté la monarchia Pahlavi. Il fronte rivoluzionario che si era costituito tra il 1977 e il 1978 era piuttosto ampio e includeva un’ampia varietà di forze politiche laiche, dai Fedayin sino ai nazionalisti del Fronte Nazionale passando per i socialisti, che chiedevano l’abbattimento della monarchia a fianco dei Mojahedin, degli studenti islamici e di parte del clero sciita. Khomeini assunse progressivamente la guida del movimento quando ancora si trovava in esilio in Iraq e, al momento del suo rientro in Iran l’11 febbraio del 1979, si affermò come leader indiscusso della rivoluzione. Poco dopo la realizzazione della rivoluzione e lo scoppio della Guerra della Santa Difesa tra l’Iraq e la Repubblica Islamica (1980-1988), Khomeini e le gerarchie sciite a lui vicine eliminarono i possibili oppositori interni al nuovo regime, rafforzando la struttura politico-istituzionale del paese e, di fatto, isolando l’Iran.
A partire dal 1979, l’architettura del potere iraniano si articola intorno ad una forma di governo semipresidenziale con elezione diretta del Presidente della Repubblica e del Majles, attorno alla quale ruota una rete di istituzioni religiose fortemente legate tra di loro (Consiglio dei Guardiani, Assemblea degli Esperti, Consiglio per il Discernimento), al cui vertice si trova la Guida Suprema. L’organizzazione istituzionale segue la dottrina khomeinista del Governo del Giureconsulto (velayat-e faqih), ovvero di un giurisperito venerabile e fonte di imitazione per la comunità che svolge le funzioni di vicario di Dio sulla terra. Conseguentemente, la legge umana (siyasa shari’a) è sottoposta ad una validazione di conformità con la legge divina (shari’a) e l’amministrazione dello Stato è giocoforza gestita da organi composti da religiosi. Infine, di cruciale importanza è il ruolo assunto dalle forze armate quali vero e proprio strumento per la sopravvivenza del regime. Oltre alle Guardie Rivoluzionarie (Sepah-e Pasdaran) e all’esercito (Nirvi-ye Zemini-ye Artesh-e Jimhuri-ye Eslâmi-ye Iran), vanno indubbiamente annoverate la milizia dei basiji, un corpo paramilitare che aveva assunto particolare importanza durante la guerra contro l’Iraq, e la cosiddetta polizia della morale (Gasht-e Ershad) istituita nella sua forma attuale nel 2005.
Va da sé come all’interno di questo framework istituzionale il riconoscimento dei diritti sia sempre stato sottoposto alla validità di questi ultimi con i precetti religiosi e come, inevitabilmente, nel corso dei quarant’anni di vita della Repubblica Islamica questa questione abbia assunto progressivamente sempre più importanza. Gli anni Novanta e il confronto dell’Iran con la globalizzazione furono il punto di inizio di un processo di rielaborazione del rapporto tra legge umana e legge divina. La presidenza pragmatista di Ali Hashemi Rafsanjani (1989-1997) e quella riformista di Mohammad Khatami (1997-2005) si caratterizzarono infatti per un grande fermento intellettuale e sociale, grazie al quale emerse una prima grande critica al regime: l’uso strumentale dell’Islam per il mantenimento dei privilegi delle gerarchie sciite, difese dalle forze armate, a discapito delle condizioni della popolazione. In altre parole, ad essere contestato era un punto fondamentale della dialettica khomeinista, ovvero l’idea che la Repubblica Islamica fosse l’unico Stato al mondo che, grazie alle sue istituzioni, poteva davvero tutelare i mustafazin, gli oppressi, contro il potere ingiusto e i nemici dell’Iran.
Questa critica si rafforzò durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013), durante la quale non solo la dialettica khomeinista venne ulteriormente rafforzata e declinata in un’interpretazione Islamico-nazionalista, ma la convergenza tra istituzioni politiche e forze armate divenne pressoché totale. La militarizzazione della politica realizzata da Ahmadinejad andò pertanto di pari passo con un’ulteriore restrizione delle libertà, realizzata anche attraverso un controllo capillare della popolazione da parte delle unità della polizia della morale. Il mandato di Hassan Rouhani (2013-2021) non ha pressoché modificato alcunché nella struttura istituzionale e politica del paese, ma ha rappresentato il definitivo punto di svolta per lo sviluppo trasversale di un’opposizione al regime in sé. Il peggioramento delle condizioni economiche, ambientali e sociali e l’incapacità della classe politica iraniana di evitare la sua progressiva trasformazione in un’autocrazia religiosa hanno determinato la nascita di un forte movimento trasversale che si sta battendo per l’abolizione del regime islamico.
Le proteste: una breve analisi storica
Come precedentemente accennato, all’evoluzione politico-economica della Repubblica Islamica ha progressivamente corrisposto una risposta da parte della popolazione, in particolare dalla morte di Khomeini in poi. La Guerra della Santa Difesa degli anni Ottanta rappresentò il momento del rafforzamento del regime, soprattutto grazie alla retorica del mito dei martiri caduti difendendo la patria durante l’invasione irachena. Le contraddizioni del regime rivoluzionario, che aveva promesso la liberazione degli oppressi e di fatto aveva creato un nuovo sistema di oppressione, inevitabilmente emersero nei mesi immediatamente successivi all’instaurazione della Repubblica Islamica e, al momento della fine della guerra, iniziarono ad entrare in conflitto con la volontà della popolazione.
Gli anni Novanta, e la presidenza di Khatami in particolare, furono un periodo molto fertile per lo sviluppo collettivo di strategie per revisionare l’assetto istituzionale iraniano e, inevitabilmente, il fermento popolare impensierì non poco il regime, che non tardò a far sentire la sua risposta. Il problema principale per le istituzioni religiose era proprio la presa di coscienza collettiva della mutata situazione nazionale e internazionale e, soprattutto, la distanza culturale tra le generazioni più giovani e il discorso politico khomeinista. Il primo plateale attacco del regime, pertanto, avvenne proprio nella seconda metà degli anni Novanta con la chiusura di riviste considerate ostili alla Repubblica Islamica perché portatrici di valori nemici. La diretta conseguenza fu la protesta degli studenti di Teheran nel 1999 con la conseguente repressione fortemente voluta dalle gerarchie sciite. Occorre tuttavia mettere in evidenza un dato significativo perché destinato a mutare nel tempo. Questa prima protesta contro il regime non poteva sicuramente dirsi trasversale, in quanto vedeva protagonista la classe media o, comunque, persone con un alto livello di istruzione che vivevano principalmente nelle città.
La prima grande manifestazione di massa della storia recente iraniana si verificò nel 2009 a seguito dei brogli elettorali che portarono alla rielezione di Ahmadinejad il 12 giugno. In quell’occasione, nonostante una palese discrepanza tra il numero degli elettori e le schede conteggiate, Ali Khamenei, la Guida Suprema della Repubblica Islamica, considerò valide le elezioni e riconfermò il presidente uscente. Il 13 giugno i sostenitori di Mir Hosseini Mousavi, il candidato sconfitto che aveva utilizzato il colore verde come simbolo della sua campagna elettorale, scesero in piazza a Teheran e dettero vita al Movimento Verde, un’ondata di proteste che si protrasse sino all’inizio del 2010. La città principalmente interessata dal movimento fu Teheran, benché anche le principali città dell’Iran sostenessero le manifestazioni. Sino all’insediamento di Ahmadinejad il 5 agosto, il Movimento Verde si caratterizzò per essere un movimento non violento che, tuttavia, subì immediatamente la violenta repressione dei basiji. A testimonianza di ciò, basti pensare al video dell’omicidio di Neda Agha Soltan, una studentessa uccisa da un colpo di proiettile sparato da un membro dei basiji il 20 giugno mentre era ferma ad osservare le manifestazioni. Il governo accusò immediatamente i manifestanti di essere collusi con l’Occidente e di essere sostenuti dai nemici della Repubblica Islamica, aumentando progressivamente la repressione e il numero degli arresti, che non si limitò a chi scendeva in piazza ma colpirono anche Mousavi e sua moglie, che ancora oggi si trovano agli arresti domiciliari. Il Movimento Verde fu indiscutibilmente il primo vero momento di rottura tra la popolazione e le istituzioni religiose, in quanto palesò come il vero interesse del regime fosse la sua sopravvivenza e quanto in realtà il peso politico della forma di governo semipresidenziale fosse di fatto inesistente. Lo slogan “Where is my vote?”, simbolo del Movimento Verde, denunciava proprio questo e, per la prima volta, la protesta iniziò a coinvolgere più strati della popolazione, anche se la componente maggioritaria, almeno nelle fasi iniziali, rimaneva ancora composta dalla classe media e da provenienti dagli ambienti urbani.
Il dato interessante delle proteste del 2009, tuttavia, è un ulteriore sviluppo nella critica contro il regime. La palese violazione dei diritti umani effettuata durante la repressione delle proteste, la crescente distanza tra l’ideologia khomeinista e le richieste da parte della popolazione, il peggioramento delle condizioni economiche e, conseguentemente, sociali del paese avevano determinato un profondo allontanamento tra le istituzioni e i cittadini. L’abbassamento dell’età media del paese, inoltre, influì profondamente nell’evidenziare la distanza ideologica tra le giovani generazioni e un sistema ormai percepito come obsoleto, e, soprattutto, oppressore. La sfiducia nella classe politica si concretizzò proprio con le elezioni del 2009, che videro un notevole afflusso di elettori alle urne. I brogli che ne seguirono, tuttavia, hanno sostanzialmente dimostrato la veridicità delle accuse di corruzione delle istituzioni e dei loro membri, sancendo la definitiva spaccatura tra società civile e Repubblica Islamica.
Gli anni della presidenza di Hassan Rouhani sono stati estremamente importanti per il consolidamento della contrapposizione tra popolazione e istituzioni. Benché l’apprezzamento occidentale per l’elezione di Rouhani, figura sicuramente più moderata di Ahmadinejad, sembrò far percepire un miglioramento delle condizioni economiche e sociali dell’Iran, le reali condizioni della popolazione non mutarono granché. Vi fu, sicuramente, una timida apertura verso una differente tutela dei diritti umani, condizione oltretutto necessaria per la sottoscrizione del JCPOA, ma già dal 2017 emersero nuovamente le criticità già espresse in precedenza, inasprite dalla mutata condizione internazionale. Nel dicembre del 2017 la città di Mashad dette vita ad una protesta per le politiche economiche del governo, condannando la corruzione e invocando l’abbattimento del regime e la destituzione di Khamenei. Ovviamente, la protesta si estese ben presto alle altre città iraniane. In altre parole, la popolazione denunciava il notevole afflusso di denaro che il governo redistribuiva all’interno degli ambienti religiosi a discapito delle condizioni di vita della popolazione, che aveva subito un repentino aumento del prezzo dei beni di prima necessità. La protesta si estese anche al mese di gennaio, ma anche durante agosto le principali città dell’Iran dettero vita a importanti manifestazioni nelle quali, nuovamente, si reclamava l’abbattimento del regime.
Il passaggio ideologico dal Movimento Verde alle proteste del 2017-2018 è, pertanto, notevole, e si individua proprio nelle rivendicazioni espresse dai manifestanti. Nel 2009 erano state espresse delle richieste ed erano state denunciate la corruzione del regime e la mancata tutela dei diritti umani; nel 2017-2018, invece, viene pretesa la fine di un regime e la morte del suo simbolo, la Guida Suprema. Parallelamente, inoltre, iniziava a svilupparsi un movimento per l’abolizione della legge sull’obbligatorietà del velo del 1979. Sebbene, ovviamente, non fosse la prima volta in cui veniva sollevata questa questione, nel 2017 si costituì uno dei primi, se non il primo, movimento organizzato per i diritti delle donne e della loro libertà di scelta. Durante le proteste antigovernative del 2017, infatti, a partire da una ragazza che si tolse il velo in Enghelab Street a Teheran, si costituì il movimento delle Donne di Enghelab che, da quel momento, è diventato una delle principali componenti delle proteste che, ancora oggi, stanno attraversando il paese. Altro dato da non sottovalutare è l’incremento degli scioperi nei vari settori produttivi del paese che, considerati dal regime pericolosi al pari delle manifestazioni di piazza. Inoltre, differentemente dal 2009, gli eventi del 2017-2018 non sono un episodio di protesta contro un evento specifico, ma rappresentano un vero e proprio punto di partenza per un processo di rinnovamento che sta continuando e sta inevitabilmente diventando un problema notevole per la stabilità della Repubblica Islamica.
L’ultimo atto che conduce alle proteste del 2022 sono gli eventi del cosiddetto Bloody Aban, il novembre di sangue del 2019. L’innalzamento del prezzo della benzina è stata la scintilla che ha riacceso le proteste che, nuovamente, sono state violentemente represse. L’uso di tattiche militari e di mezzi e armi pesanti, le minacce nei confronti della popolazione, l’esibizione dei cadaveri dei manifestanti sono state solo alcune delle misure utilizzate dal governo per reprimere le proteste che, inevitabilmente, si sono acuite e si sono protratte anche nei primi mesi del 2020. A complicare la già difficile situazione si è successivamente aggiunta la pessima gestione della pandemia di Covid-19 da parte delle istituzioni, con un ulteriore aggravamento della già precaria situazione economica, e le disastrose politiche di gestione delle risorse idriche. Conseguentemente, tra il 2019 e il 2021 il movimento di protesta non solo si rinforza e alza nuovamente il livello delle proprie rivendicazioni, ma si struttura in componenti ben definite che contribuiscono alla riuscita di manifestazioni sempre più frequenti e sempre meglio organizzate. Al momento dell’uccisione di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, l’Iran è già un paese mobilitato contro le sue istituzioni e pronto a scendere in piazza per rivendicare il rispetto dei propri diritti e la fine dell’oppressione del regime degli Ayatollah.
Zan, Zendegi, Azadi
La morte di Mahsa Amini ha riportato prepotentemente l’attenzione internazionale sulla Repubblica Islamica e su questioni rimaste in sospeso per anni. La repressione ordinata dal governo risulta ad oggi la più violenta mai messa in pratica sul territorio iraniano, ed evidenzia la reale pericolosità del movimento di opposizione al regime. Gli eventi a cui stiamo assistendo, infatti, sono la risposta ad una catena di soprusi sociali e politici subiti dalla popolazione nel corso degli anni. Le ripetute violazioni dei diritti umani, la continua violenza esercitata dalla polizia della morale nei confronti delle donne e le uccisioni e le violenze perpetrate sui manifestanti durante gli anni precedenti, hanno fatto sì che le proteste del 2022 siano le più partecipate nella storia dell’Iran, non solo all’interno dei suoi confini ma anche all’estero. Il nuovo presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha nuovamente cercato di utilizzare la storica dottrina khomeinista in difesa dell’operato delle istituzioni, arrivando anche ad affermare davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 21 settembre 2022 come l’Occidente abbia contribuito ad instillare nella popolazione iraniana un’errata considerazione dei diritti umani che, nella sua visione, la Repubblica Islamica dell’Iran rispetta e tutela (Si veda in merito UN Web TV, data ultima consultazione 10 ottobre 2022).
In questo senso, lo slogan “Donna, Vita, Libertà” che è diventato il simbolo delle manifestazioni a cui stiamo assistendo è particolarmente importante, perché racchiude l’essenza di una lotta ormai pluridecennale che non coinvolge più solamente l’Iran. L’età media dei manifestanti si aggira intorno ai vent’anni, testimoniando ancora una volta quanto le generazioni nate sotto la Repubblica Islamica non solo non ne condividano le basi ideologiche, ma siano consce di tutta una serie di criticità ormai insanabili. Il movimento di protesta non solo è realmente trasversale e coinvolge la pressoché totalità degli strati della popolazione, ma ha dei marcati caratteri transnazionali e si colloca anche nell’orbita dei movimenti intersezionali. Ed è esattamente questa la ragione per la quale Raisi, Khamenei e l’establishment religioso della Repubblica Islamica sono particolarmente messi a dura prova in queste settimane. Proprio in questo senso va interpretato il motto Zan, Zendegi, Azadi, perché le lotte delle donne, delle minoranze, della popolazione e di tutti coloro che sono stati soggetti alla violenza del regime chiedono la libertà di poter scegliere come riorganizzare la propria nazione una volta che questa sarà libera dall’oppressore, ovvero la Repubblica Islamica e l’ideologia khomeinista.
Ad oggi è impossibile prevedere quanto dureranno le proteste e come si evolveranno. I dati certi che abbiamo, però, sono due. Il primo è che all’inasprimento della repressione corrisponderà la continuazione delle proteste, e viceversa ovviamente, e non sappiamo quanto potrà durare questa situazione. Il secondo è che, anche allorquando le proteste venissero sedate, il movimento di opposizione al regime non solo non andrà ad esaurirsi, ma continuerà a rafforzarsi determinando nuove ondate di contestazioni.
Zan, zendegi, azadi. Una protesta annunciata che scuote le fondamenta della Repubblica Islamica (di Alessia Tortolini ricercatrice Facoltà Scienze Politiche Università di Pisa)
Le proteste in Iran a seguito della morte di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, hanno riacceso l’attenzione internazionale sulla Repubblica Islamica e sulla tutela dei diritti umani nel paese. Questa ondata di contestazioni, tuttavia, non è un’eccezione e si inserisce in un ben più ampio contesto. Il movimento iraniano che oggi scende in piazza contestando il regime fa infatti parte di una più ampia costellazione di proteste e rivendicazioni che il popolo iraniano ha più volte manifestato nel corso degli anni. Se, indubbiamente, le proteste scoppiate ormai quasi un mese fa dimostrano ogni giorno di più la loro portata grazie al loro carattere trasversale e transnazionale, la loro origine non è così recente come possa sembrare ma va ricercata nell’evoluzione parallela del regime iraniano e dei movimenti di protesta.
La Repubblica Islamica d’Iran: istituzioni, ideologia, politica
La Repubblica Islamica venne istituita mediante referendum il 1 aprile 1979 a seguito della realizzazione della rivoluzione che abbatté la monarchia Pahlavi. Il fronte rivoluzionario che si era costituito tra il 1977 e il 1978 era piuttosto ampio e includeva un’ampia varietà di forze politiche laiche, dai Fedayin sino ai nazionalisti del Fronte Nazionale passando per i socialisti, che chiedevano l’abbattimento della monarchia a fianco dei Mojahedin, degli studenti islamici e di parte del clero sciita. Khomeini assunse progressivamente la guida del movimento quando ancora si trovava in esilio in Iraq e, al momento del suo rientro in Iran l’11 febbraio del 1979, si affermò come leader indiscusso della rivoluzione. Poco dopo la realizzazione della rivoluzione e lo scoppio della Guerra della Santa Difesa tra l’Iraq e la Repubblica Islamica (1980-1988), Khomeini e le gerarchie sciite a lui vicine eliminarono i possibili oppositori interni al nuovo regime, rafforzando la struttura politico-istituzionale del paese e, di fatto, isolando l’Iran.
A partire dal 1979, l’architettura del potere iraniano si articola intorno ad una forma di governo semipresidenziale con elezione diretta del Presidente della Repubblica e del Majles, attorno alla quale ruota una rete di istituzioni religiose fortemente legate tra di loro (Consiglio dei Guardiani, Assemblea degli Esperti, Consiglio per il Discernimento), al cui vertice si trova la Guida Suprema. L’organizzazione istituzionale segue la dottrina khomeinista del Governo del Giureconsulto (velayat-e faqih), ovvero di un giurisperito venerabile e fonte di imitazione per la comunità che svolge le funzioni di vicario di Dio sulla terra. Conseguentemente, la legge umana (siyasa shari’a) è sottoposta ad una validazione di conformità con la legge divina (shari’a) e l’amministrazione dello Stato è giocoforza gestita da organi composti da religiosi. Infine, di cruciale importanza è il ruolo assunto dalle forze armate quali vero e proprio strumento per la sopravvivenza del regime. Oltre alle Guardie Rivoluzionarie (Sepah-e Pasdaran) e all’esercito (Nirvi-ye Zemini-ye Artesh-e Jimhuri-ye Eslâmi-ye Iran), vanno indubbiamente annoverate la milizia dei basiji, un corpo paramilitare che aveva assunto particolare importanza durante la guerra contro l’Iraq, e la cosiddetta polizia della morale (Gasht-e Ershad) istituita nella sua forma attuale nel 2005.
Va da sé come all’interno di questo framework istituzionale il riconoscimento dei diritti sia sempre stato sottoposto alla validità di questi ultimi con i precetti religiosi e come, inevitabilmente, nel corso dei quarant’anni di vita della Repubblica Islamica questa questione abbia assunto progressivamente sempre più importanza. Gli anni Novanta e il confronto dell’Iran con la globalizzazione furono il punto di inizio di un processo di rielaborazione del rapporto tra legge umana e legge divina. La presidenza pragmatista di Ali Hashemi Rafsanjani (1989-1997) e quella riformista di Mohammad Khatami (1997-2005) si caratterizzarono infatti per un grande fermento intellettuale e sociale, grazie al quale emerse una prima grande critica al regime: l’uso strumentale dell’Islam per il mantenimento dei privilegi delle gerarchie sciite, difese dalle forze armate, a discapito delle condizioni della popolazione. In altre parole, ad essere contestato era un punto fondamentale della dialettica khomeinista, ovvero l’idea che la Repubblica Islamica fosse l’unico Stato al mondo che, grazie alle sue istituzioni, poteva davvero tutelare i mustafazin, gli oppressi, contro il potere ingiusto e i nemici dell’Iran.
Questa critica si rafforzò durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013), durante la quale non solo la dialettica khomeinista venne ulteriormente rafforzata e declinata in un’interpretazione Islamico-nazionalista, ma la convergenza tra istituzioni politiche e forze armate divenne pressoché totale. La militarizzazione della politica realizzata da Ahmadinejad andò pertanto di pari passo con un’ulteriore restrizione delle libertà, realizzata anche attraverso un controllo capillare della popolazione da parte delle unità della polizia della morale. Il mandato di Hassan Rouhani (2013-2021) non ha pressoché modificato alcunché nella struttura istituzionale e politica del paese, ma ha rappresentato il definitivo punto di svolta per lo sviluppo trasversale di un’opposizione al regime in sé. Il peggioramento delle condizioni economiche, ambientali e sociali e l’incapacità della classe politica iraniana di evitare la sua progressiva trasformazione in un’autocrazia religiosa hanno determinato la nascita di un forte movimento trasversale che si sta battendo per l’abolizione del regime islamico.
Le proteste: una breve analisi storica
Come precedentemente accennato, all’evoluzione politico-economica della Repubblica Islamica ha progressivamente corrisposto una risposta da parte della popolazione, in particolare dalla morte di Khomeini in poi. La Guerra della Santa Difesa degli anni Ottanta rappresentò il momento del rafforzamento del regime, soprattutto grazie alla retorica del mito dei martiri caduti difendendo la patria durante l’invasione irachena. Le contraddizioni del regime rivoluzionario, che aveva promesso la liberazione degli oppressi e di fatto aveva creato un nuovo sistema di oppressione, inevitabilmente emersero nei mesi immediatamente successivi all’instaurazione della Repubblica Islamica e, al momento della fine della guerra, iniziarono ad entrare in conflitto con la volontà della popolazione.
Gli anni Novanta, e la presidenza di Khatami in particolare, furono un periodo molto fertile per lo sviluppo collettivo di strategie per revisionare l’assetto istituzionale iraniano e, inevitabilmente, il fermento popolare impensierì non poco il regime, che non tardò a far sentire la sua risposta. Il problema principale per le istituzioni religiose era proprio la presa di coscienza collettiva della mutata situazione nazionale e internazionale e, soprattutto, la distanza culturale tra le generazioni più giovani e il discorso politico khomeinista. Il primo plateale attacco del regime, pertanto, avvenne proprio nella seconda metà degli anni Novanta con la chiusura di riviste considerate ostili alla Repubblica Islamica perché portatrici di valori nemici. La diretta conseguenza fu la protesta degli studenti di Teheran nel 1999 con la conseguente repressione fortemente voluta dalle gerarchie sciite. Occorre tuttavia mettere in evidenza un dato significativo perché destinato a mutare nel tempo. Questa prima protesta contro il regime non poteva sicuramente dirsi trasversale, in quanto vedeva protagonista la classe media o, comunque, persone con un alto livello di istruzione che vivevano principalmente nelle città.
La prima grande manifestazione di massa della storia recente iraniana si verificò nel 2009 a seguito dei brogli elettorali che portarono alla rielezione di Ahmadinejad il 12 giugno. In quell’occasione, nonostante una palese discrepanza tra il numero degli elettori e le schede conteggiate, Ali Khamenei, la Guida Suprema della Repubblica Islamica, considerò valide le elezioni e riconfermò il presidente uscente. Il 13 giugno i sostenitori di Mir Hosseini Mousavi, il candidato sconfitto che aveva utilizzato il colore verde come simbolo della sua campagna elettorale, scesero in piazza a Teheran e dettero vita al Movimento Verde, un’ondata di proteste che si protrasse sino all’inizio del 2010. La città principalmente interessata dal movimento fu Teheran, benché anche le principali città dell’Iran sostenessero le manifestazioni. Sino all’insediamento di Ahmadinejad il 5 agosto, il Movimento Verde si caratterizzò per essere un movimento non violento che, tuttavia, subì immediatamente la violenta repressione dei basiji. A testimonianza di ciò, basti pensare al video dell’omicidio di Neda Agha Soltan, una studentessa uccisa da un colpo di proiettile sparato da un membro dei basiji il 20 giugno mentre era ferma ad osservare le manifestazioni. Il governo accusò immediatamente i manifestanti di essere collusi con l’Occidente e di essere sostenuti dai nemici della Repubblica Islamica, aumentando progressivamente la repressione e il numero degli arresti, che non si limitò a chi scendeva in piazza ma colpirono anche Mousavi e sua moglie, che ancora oggi si trovano agli arresti domiciliari. Il Movimento Verde fu indiscutibilmente il primo vero momento di rottura tra la popolazione e le istituzioni religiose, in quanto palesò come il vero interesse del regime fosse la sua sopravvivenza e quanto in realtà il peso politico della forma di governo semipresidenziale fosse di fatto inesistente. Lo slogan “Where is my vote?”, simbolo del Movimento Verde, denunciava proprio questo e, per la prima volta, la protesta iniziò a coinvolgere più strati della popolazione, anche se la componente maggioritaria, almeno nelle fasi iniziali, rimaneva ancora composta dalla classe media e da provenienti dagli ambienti urbani.
Il dato interessante delle proteste del 2009, tuttavia, è un ulteriore sviluppo nella critica contro il regime. La palese violazione dei diritti umani effettuata durante la repressione delle proteste, la crescente distanza tra l’ideologia khomeinista e le richieste da parte della popolazione, il peggioramento delle condizioni economiche e, conseguentemente, sociali del paese avevano determinato un profondo allontanamento tra le istituzioni e i cittadini. L’abbassamento dell’età media del paese, inoltre, influì profondamente nell’evidenziare la distanza ideologica tra le giovani generazioni e un sistema ormai percepito come obsoleto, e, soprattutto, oppressore. La sfiducia nella classe politica si concretizzò proprio con le elezioni del 2009, che videro un notevole afflusso di elettori alle urne. I brogli che ne seguirono, tuttavia, hanno sostanzialmente dimostrato la veridicità delle accuse di corruzione delle istituzioni e dei loro membri, sancendo la definitiva spaccatura tra società civile e Repubblica Islamica.
Gli anni della presidenza di Hassan Rouhani sono stati estremamente importanti per il consolidamento della contrapposizione tra popolazione e istituzioni. Benché l’apprezzamento occidentale per l’elezione di Rouhani, figura sicuramente più moderata di Ahmadinejad, sembrò far percepire un miglioramento delle condizioni economiche e sociali dell’Iran, le reali condizioni della popolazione non mutarono granché. Vi fu, sicuramente, una timida apertura verso una differente tutela dei diritti umani, condizione oltretutto necessaria per la sottoscrizione del JCPOA, ma già dal 2017 emersero nuovamente le criticità già espresse in precedenza, inasprite dalla mutata condizione internazionale. Nel dicembre del 2017 la città di Mashad dette vita ad una protesta per le politiche economiche del governo, condannando la corruzione e invocando l’abbattimento del regime e la destituzione di Khamenei. Ovviamente, la protesta si estese ben presto alle altre città iraniane. In altre parole, la popolazione denunciava il notevole afflusso di denaro che il governo redistribuiva all’interno degli ambienti religiosi a discapito delle condizioni di vita della popolazione, che aveva subito un repentino aumento del prezzo dei beni di prima necessità. La protesta si estese anche al mese di gennaio, ma anche durante agosto le principali città dell’Iran dettero vita a importanti manifestazioni nelle quali, nuovamente, si reclamava l’abbattimento del regime.
Il passaggio ideologico dal Movimento Verde alle proteste del 2017-2018 è, pertanto, notevole, e si individua proprio nelle rivendicazioni espresse dai manifestanti. Nel 2009 erano state espresse delle richieste ed erano state denunciate la corruzione del regime e la mancata tutela dei diritti umani; nel 2017-2018, invece, viene pretesa la fine di un regime e la morte del suo simbolo, la Guida Suprema. Parallelamente, inoltre, iniziava a svilupparsi un movimento per l’abolizione della legge sull’obbligatorietà del velo del 1979. Sebbene, ovviamente, non fosse la prima volta in cui veniva sollevata questa questione, nel 2017 si costituì uno dei primi, se non il primo, movimento organizzato per i diritti delle donne e della loro libertà di scelta. Durante le proteste antigovernative del 2017, infatti, a partire da una ragazza che si tolse il velo in Enghelab Street a Teheran, si costituì il movimento delle Donne di Enghelab che, da quel momento, è diventato una delle principali componenti delle proteste che, ancora oggi, stanno attraversando il paese. Altro dato da non sottovalutare è l’incremento degli scioperi nei vari settori produttivi del paese che, considerati dal regime pericolosi al pari delle manifestazioni di piazza. Inoltre, differentemente dal 2009, gli eventi del 2017-2018 non sono un episodio di protesta contro un evento specifico, ma rappresentano un vero e proprio punto di partenza per un processo di rinnovamento che sta continuando e sta inevitabilmente diventando un problema notevole per la stabilità della Repubblica Islamica.
L’ultimo atto che conduce alle proteste del 2022 sono gli eventi del cosiddetto Bloody Aban, il novembre di sangue del 2019. L’innalzamento del prezzo della benzina è stata la scintilla che ha riacceso le proteste che, nuovamente, sono state violentemente represse. L’uso di tattiche militari e di mezzi e armi pesanti, le minacce nei confronti della popolazione, l’esibizione dei cadaveri dei manifestanti sono state solo alcune delle misure utilizzate dal governo per reprimere le proteste che, inevitabilmente, si sono acuite e si sono protratte anche nei primi mesi del 2020. A complicare la già difficile situazione si è successivamente aggiunta la pessima gestione della pandemia di Covid-19 da parte delle istituzioni, con un ulteriore aggravamento della già precaria situazione economica, e le disastrose politiche di gestione delle risorse idriche. Conseguentemente, tra il 2019 e il 2021 il movimento di protesta non solo si rinforza e alza nuovamente il livello delle proprie rivendicazioni, ma si struttura in componenti ben definite che contribuiscono alla riuscita di manifestazioni sempre più frequenti e sempre meglio organizzate. Al momento dell’uccisione di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, l’Iran è già un paese mobilitato contro le sue istituzioni e pronto a scendere in piazza per rivendicare il rispetto dei propri diritti e la fine dell’oppressione del regime degli Ayatollah.
Zan, Zendegi, Azadi
La morte di Mahsa Amini ha riportato prepotentemente l’attenzione internazionale sulla Repubblica Islamica e su questioni rimaste in sospeso per anni. La repressione ordinata dal governo risulta ad oggi la più violenta mai messa in pratica sul territorio iraniano, ed evidenzia la reale pericolosità del movimento di opposizione al regime. Gli eventi a cui stiamo assistendo, infatti, sono la risposta ad una catena di soprusi sociali e politici subiti dalla popolazione nel corso degli anni. Le ripetute violazioni dei diritti umani, la continua violenza esercitata dalla polizia della morale nei confronti delle donne e le uccisioni e le violenze perpetrate sui manifestanti durante gli anni precedenti, hanno fatto sì che le proteste del 2022 siano le più partecipate nella storia dell’Iran, non solo all’interno dei suoi confini ma anche all’estero. Il nuovo presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha nuovamente cercato di utilizzare la storica dottrina khomeinista in difesa dell’operato delle istituzioni, arrivando anche ad affermare davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 21 settembre 2022 come l’Occidente abbia contribuito ad instillare nella popolazione iraniana un’errata considerazione dei diritti umani che, nella sua visione, la Repubblica Islamica dell’Iran rispetta e tutela (Si veda in merito UN Web TV, data ultima consultazione 10 ottobre 2022).
In questo senso, lo slogan “Donna, Vita, Libertà” che è diventato il simbolo delle manifestazioni a cui stiamo assistendo è particolarmente importante, perché racchiude l’essenza di una lotta ormai pluridecennale che non coinvolge più solamente l’Iran. L’età media dei manifestanti si aggira intorno ai vent’anni, testimoniando ancora una volta quanto le generazioni nate sotto la Repubblica Islamica non solo non ne condividano le basi ideologiche, ma siano consce di tutta una serie di criticità ormai insanabili. Il movimento di protesta non solo è realmente trasversale e coinvolge la pressoché totalità degli strati della popolazione, ma ha dei marcati caratteri transnazionali e si colloca anche nell’orbita dei movimenti intersezionali. Ed è esattamente questa la ragione per la quale Raisi, Khamenei e l’establishment religioso della Repubblica Islamica sono particolarmente messi a dura prova in queste settimane. Proprio in questo senso va interpretato il motto Zan, Zendegi, Azadi, perché le lotte delle donne, delle minoranze, della popolazione e di tutti coloro che sono stati soggetti alla violenza del regime chiedono la libertà di poter scegliere come riorganizzare la propria nazione una volta che questa sarà libera dall’oppressore, ovvero la Repubblica Islamica e l’ideologia khomeinista.
Ad oggi è impossibile prevedere quanto dureranno le proteste e come si evolveranno. I dati certi che abbiamo, però, sono due. Il primo è che all’inasprimento della repressione corrisponderà la continuazione delle proteste, e viceversa ovviamente, e non sappiamo quanto potrà durare questa situazione. Il secondo è che, anche allorquando le proteste venissero sedate, il movimento di opposizione al regime non solo non andrà ad esaurirsi, ma continuerà a rafforzarsi determinando nuove ondate di contestazioni.
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Redazione Scuola